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“Chiudi a chiave la porta…” Violenza privata a condotte (ed effetti) variabili
L’elemento oggettivo del delitto di violenza privata è costituito da una violenza o da una minaccia che abbiano l’effetto di costringere taluno a fare, tollerare od omettere una condotta determinata, poiché in assenza di tale determinatezza, possono integrarsi i singoli reati di minaccia, molestia, ingiuria, percosse, ma non quello di violenza privata.
(Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza n. 18522/20; depositata il 18 giugno)
Ne deriva che il delitto di cui all’articolo 610 c.p. non è configurabile qualora gli atti di violenza e di natura intimidatoria integrino, essi stessi, l’evento naturalistico del reato, vale a dire il “pati” cui la persona offesa sia costretta.
L’articolo 610 del codice penale la norma, il cui contenuto è ben noto, è sottoposta ad attenta analisi da parte degli Ermellini che ne ricostruiscono anche quella che può esserne definita la “genesi ermeneutica”.
Nella sentenza in commento infatti si legge “… questa Corte ha contribuito a delineare la fisionomia della minaccia penalmente rilevante ai sensi dell’articolo 610 cod. pen. con la pronuncia n. 29261/2017 secondo cui ai fini del delitto di violenza privata, non è richiesta una minaccia verbale o esplicita, essendo sufficiente un qualsiasi comportamento od atteggiamento, sia verso il soggetto passivo, sia verso altri, idoneo ad incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di subire un danno ingiusto, finalizzato ad ottenere che, mediante tale intimidazione, il soggetto passivo sia indotto a fare, tollerare od omettere qualcosa.”
La minaccia dunque, richiesta dal Legislatore affinché possa dirsi integrata la fattispecie ex articolo 610 c.p., può dunque essere anche non verbale ed addirittura non esplicita.
Esplicito ovvero, come si legge sul dizionario della lingua Italiana, “espresso con chiarezza e precisione, inequivocabile.”
Dunque per il Giudice la minaccia che assume rilevanza penale in fattispecie certamente di non poca portata, può essere espressa anche senza il requisito della chiarezza, rectius esse può non essere chiara, senza quello della precisione ed essere quindi equivoca.
Vi sarebbe a interrogarsi circa la possibile assenza di chiarezza della minaccia e sul requisito della sua non inequivocabilità attraverso approfondite riflessioni incompatibili con lo spazio ed il tempo che può essere dedicato dall’editore ed ancor più dalla grazia dei lettori, ma non posso non rilevare come una minaccia non chiara e equivoca non mi pare possa dirsi soddisfare i requisiti imposti dal principi Costituzionali in tema di diritto penale, posto che vien lasciato ampio, amplissimo margine interpretativo al soggetto nei cui confronti viene rivolta l’espressione non chiara ed equivoca che diviene minaccia in forza del significato che ad essa attribuisce, o vuol attribuire, il destinatario o l’interprete.
Ma tant’è, allo stato la giurisprudenza di legittimità può dirsi abbia raggiunto un arresto consolidato che essa stessa definisce granitico.
Il tentativo: la disposizione contenuta nell’articolo 56 del codice sostanziale ha da sempre lasciato e sollevato dubbi circa l’interpretazione del significato da attribuirsi al concetto di univocità degli atti diretti in modo non equivoco a commettere il reato.
Far collimare una minaccia che può assumere i connotati ed i criteri dell’equivocità con il disposto di una norma che richiede che gli atti vengano commessi e compiuti in modo non equivoco mi pare operazione difficilissima sotto il profilo logico.
La Corte riesce a compiere l’operazione, frutto quasi di tecnica alchemica, ricordando come “ai fini della configurabilità del tentativo di violenza privata non sia necessario che la minaccia abbia effettivamente intimorito il soggetto passivo determinando una costrizione, ancorché improduttiva del risultato perseguito, ma è sufficiente che essa sia idonea ad incutere timore e sia diretta a costringere il destinatario a tenere, contro la propria volontà, la condotta pretesa dall’agente”,.
Non sfuggirà agli attenti interpreti come una minaccia di tenore non chiaro ed equivocabile, che non ha neppure intimorito il soggetto passivo, sia figura assai lontana da quella che il Legislatore aveva disegnato nel codice e, lontanissima, ma il parere è assolutamente personale, dal significato comune che al termine minaccia ed ai suoi effetti si attribuisce.
Ma tant’è, allo stato un atto privo dei caratteri di chiarezza, equivocabile, che non ha raggiunto minimante lo scopo (quale se l’atto era equivocabile?) può essere considerato “diretto in modo non equivoco” alla commissione del reato, ovvero atto ad incutere timore.
La natura del reato: il delitto di violenza privata è preordinato a reprimere fatti di coercizione non espressamente contemplati da specifiche disposizioni di legge.
Dunque costrizioni, ottenute attraverso violenza o minaccia, relative ed inerenti la libertà psichica (termine utilizzato in sentenza) di autodeterminazione del soggetto passivo.
Detta fattispecie ha certamente punti di contatto evidenti con quella enucleata dal Legislatore con l’articolo 605 c.p., (sequestro di persona) differenziandosene però in relazione al bene oggetto di tutela.
Se nel primo caso è la capacità di autodeterminazione, ovvero la libertà di determinarsi autonomamente e liberamente del soggetto passivo, nel secondo caso il bene aggredito dalla condotta dell’agente deve essere rinvenuto nella libertà di movimento.
Ai fini di determinare quale sia la fattispecie astratta applicabile al caso concreto, allorché l’azione posta in essere apparentemente colpisca sia la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo sia la sua libertà di movimento (il chiudere una porta a chiave come nel caso di specie appare essere attività in grado di agire ed esplicare effetti su entrambi i fronti), occorre far ricorso al principio di specialità che il Legislatore ha sancito nell’articolo 15 del codice penale.
In virtù dell’interpretazione che di detto principio forniscono gli Ermellini può dirsi che non sia configurabile il delitto di violenza privata qualora la violenza, fisica o morale, sia stata usata direttamente ed esclusivamente per privare la persona offesa della libertà di movimento.
Ogni altro utilizzo della privazione della libertà di movimento, non esclusivamente finalizzato alla semplice privazione della stessa, da corso all’applicazione della norma dettata all’articolo 610 del codice restano non punibili, in virtù del principio di offensività, i soli comportamenti che, pur costituendo violazioni di regole deontologiche, etiche o scoiali, si rivelino inidonei a limitare la libertà di movimento o ad influenzare significativamente il processo di formazione della volontà, devono definirsi altresì irrilevanti anche le condotte, astrattamente condizionanti, che si rivelino in concreto inidonee a limitare la libertà di movimento o a condizionare il processo di formazione della volontà altrui.
La norma dettata dal Legislatore all’articolo 610 del codice penale ha dunque mutevoli e cangianti caratteristiche; essa delinea condotte caratterizzate da minacce che possono bene essere verbali ma non esplicite e quindi non espresse con chiarezza ed addirittura equivocabili, escluse dal novero della applicabilità della disposizione se direttamente ed esclusivamente utilizzate per limitare o privare la libertà di movimento, che ben possono dirsi inoffensive se, pur costituendo violazioni di regole deontologiche, etiche o scoiali, si rivelino inidonee ad influenzare significativamente il processo di formazione della volontà, irrilevanti pur se, astrattamente condizionanti, si rivelino in concreto inidonee a condizionare il processo di formazione della volontà altrui.
Tutto chiaro.
O no?
Avv. Claudio Bossi