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Cessione T.F.R.: non si applica il limite del quinto alla cessione del credito da Trattamento di Fine Rapporto
Ai sensi dell’art. 52, comma 2 del D.P.R. 5 gennaio 1950, n. 180 (modificato dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35), alla cessione del trattamento di fine rapporto dei lavoratori pubblici e privati non si applica il limite del quinto. Da ciò consegue che la regola posta dall’art. 1260 c.c. in merito alla libera cedibilità dei crediti, salvo che si tratti di crediti di carattere strettamente personale o il loro trasferimento sia vietato dalla legge ovvero escluso dalla volontà delle parti, deve ritenersi pienamente applicabile alla cessione del credito per trattamento di fine rapporto, non sussistendo nell’ordinamento un esplicito divieto legale in ordine a tale cessione e non essendo il credito del lavoratore in ordine a tale indennità un credito avente natura strettamente personale.
Principio affermato dalla Corte di Cassazione, Sezione Lavoro con la sentenza n. 3913, pubblicata il 17 febbraio 2020.
La vicenda decisa: azione di accertamento dell’obbligo del terzo promossa nei confronti del terzo, datore di lavoro del debitore.
Il creditore di un lavoratore dipendente privato, promuoveva azione di accertamento dell’obbligo del terzo, poiché quest’ultimo, datore di lavoro del debitore, aveva dichiarato di nulla dovere, in conseguenza di cessione di credito, per retribuzioni (nel limite del quinto) e T.F.R., in essere tra il proprio dipendente ed una società finanziaria; cessione, avvenuta anteriormente alla notifica dell’atto di pignoramento. Il datore di lavoro, essendo venuto a cessare il rapporto di lavoro con il proprio dipendente, debitore, aveva erogato integralmente il T.F.R. alla cessionaria del credito, così estinguendo ogni posizione nei confronti del cessato lavoratore. Il Tribunale accoglieva la domanda, accertando la sussistenza di crediti verso il lavoratore. L’azienda proponeva appello, ma la Corte d’Appello lo rigettava. Ricorreva così in Cassazione l’azienda.
L’assimilazione dei trattamenti retributivi tra lavoro pubblico e privato, ai fini della pignorabilità.
La corte di merito, nella sentenza impugnata, aveva affermato l’assimilazione dei trattamenti retributivi e di fine rapporti previsti per il rapporto di lavoro pubblico a quello privato. Di conseguenza, doveva ritenersi esteso il limite del quinto della retribuzione, quale quota pignorabile anche al T.F.R.. E, ulteriore conseguenza, la medesima quota del quinto limitava la cedibilità dei crediti da retribuzione e T.F.R. Pertanto, al datore di lavoro non era consentito pagare alla cessionaria del credito una somma che eccedesse la quota di un quinto del T.F.R. maturato. Nemmeno poi, secondo la corte territoriale, era stata fornita in giudizio la prova del pagamento alla cessionaria dell’intero T.F.R.
La censura mossa sul punto alla sentenza d’appello da parte della ricorrente è ritenuta fondata dalla Suprema Corte, che afferma prima di tutto, l’assimilazione dei trattamenti retributivi da lavoro pubblico e privato, ai fini della pignorabilità, sequestrabilità e della cessione dei crediti da essi derivanti.
La quota del quinto non si estende al Trattamento di Fine Rapporto
Ma, proseguono gli Ermellini, il limite di pignorabilità e di cedibilità della quota di un quinto, non si estende al T.F.R.. In base al disposto dell’articolo 52 D.P.R. n. 180 del 1950 (e sue successive modificazioni), applicabile, come visto anche al rapporto di lavoro privato, tale emolumento è esplicitamente escluso dalla quota limite. Così infatti la norma invocata: “Nei confronti dei medesimi impiegati e salariati assunti in servizio a tempo determinato, la cessione del quinto dello stipendio o del salario non può eccedere il periodo di tempo che, al momento dell’operazione, deve ancora trascorrere per la scadenza del contratto in essere. Alla cessione del trattamento di fine rapporto posta in essere dai soggetti di cui al precedente e al presente comma non si applica il limite del quinto”.
Una conferma a tale interpretazione, secondo i giudici di legittimità, si ha dal precedente articolo 43 del medesimo D.P.R. n. 180/1950 che appunto recita: “Qualora la cessazione dal servizio, anziché ad una pensione o altro assegno continuativo equivalente dia diritto ad una somma una volta tanto, a titolo di indennità o di capitale assicurato, a carico dell’amministrazione o di un istituto di previdenza o di assicurazione, tale somma è ritenuta fino alla concorrenza dell’intero residuo debito per cessione”.
Dalle considerazioni sopra svolte, il Supremo Collegio afferma che in tema di cessione del credito, in mancanza di espliciti divieti legali (dovendosi escludere la natura strettamente personale del credito), appare legittima la cessione dell’intero credito del lavoratore per trattamento di fine rapporto, stante anche la inapplicabilità in via analogica delle eccezioni normative al principio generale della libera cedibilità dei crediti, costituenti jus singulare.
La cessione del credito è contratto consensuale
Su questi presupposti, viene così a perdere di rilevanza l’assunto della corte territoriale circa la mancata prova del pagamento effettivo alla cessionaria. Il contratto di cessione del credito ha natura consensuale. Pertanto, una volta perfezionatosi con lo scambio di consenso tra cedente e cessionario, quest’ultimo diventa creditore, legittimato a pretendere il pagamento della prestazione. Anche in via esecutiva. E, in contrapposizione, il debitore è tenuto a pagare solo al cessionario.
Nel caso deciso, essendosi perfezionata la cessione di credito ben prima della notifica dell’atto di pignoramento, discende che al momento di questa notifica, il datore di lavoro nulla più doveva al lavoratore. Così divenendo appunto irrilevante il momento dell’effettivo pagamento alla cessionaria.
Corretta dunque la dichiarazione resa dal terzo in sede di procedura espropriativa presso terzi.
In conclusione il ricorso proposto è stato ritenuto fondato dalla Corte che ha cassato la sentenza impugnata e rinviato ad altra Corte di merito.
Avv. Roberto Dulio