Civile

Monday 09 May 2005

Attività di casalinga e possibilità di riconoscimento del danno patrimoniale in ragione della riduzione della capacità lavorativa Cassazione – Sezione Terza Civile – Sentenza n. 4657

Attività di casalinga e possibilità di riconoscimento del danno
patrimoniale in ragione della riduzione della capacità lavorativa

Cassazione – Sezione Terza Civile – Sentenza
n. 4657 del 03/03/2005 – (Presidente: A. Giuliano -Relatore: A. Talevi)

Svolgimento del processo

Nell’impugnata decisione lo
svolgimento del processo è esposto come segue.

“Con atto di citazione notificato il
25-26.10.2004, D.P. e A.M. convenivano in giudizio
avanti al Tribunale di Roma l’A.T.A.C., l’Ascoroma (ora Le Assicurazioni di Roma) e A.Me., chiedendone la condanna al risarcimento dei danni
subiti in conseguenza dell’incedente stradale avvenuto in Roma il 24.10.1992,
allorché l’autobus appartenente alla prima convenuta, assicurato dalla seconda
e condotto dal terzo aveva invaso la opposta corsia di marcia investendo
l’autovettura Fiat 126 di proprietà di A.M. e condotta da D.P..

Mentre A.Me. rimaneva contumace, le società convenute si costituivano
opponendosi alla domanda. Inoltre l’ A.T.A.C. chiedeva in via riconvenzionale il risarcimento
dei danni a sua volta subiti e a tal fine otteneva autorizzazione a chiamare in
giudizio l’Intercontinentale (ora incorporata nella Winterthur),
assicuratrice dell’auto della A.M..

Questa società si costituiva
contestando la domanda proposta nei suoi confronti e chiedendo la condanna dell’ A.T.A.C. a rivalerla di quanto corrisposto a S.P.,
trasportata a bordo della Fiat 126.

Istruita la causa, il Tribunale
adito, con sentenza in data 11.12.1997, 13.2.1998, addebitava la responsabilità
dell’incidente per il 40% ad A.Me. e
per il 60% alla D.P.; quindi condannava i convenuti a
pagare £. 557.350.000
a favore di quest’ultima e di
£.688.000 a favore della A.M.,
oltre interessi legali dalla pubblicazione della sentenza e rifusione del 50%
delle spese di lite; inoltre condannava la D.P., la A.M. e l’Intercontinentale a
pagare all’A.T.A.C. £. 3.720.000,
oltre interessi legali dalla pubblicazione della sentenza e rifusione del 50%
delle spese di lite.

La
D.P. e
la A.M.
appellavano con atto notificato il 20.9-5.10.1998 lamentando con tre motivi
l’erroneità della sentenza impugnata, di cui chiedevano la riforma con
declaratoria di responsabilità esclusiva della controparte e liquidazione dei
danni rispettivamente subiti in misura più elevata.

Mentre A.Me. rimaneva contumace anche in questo grado, l’A.T.A.C. e Le Assicurazioni di Roma si costituivano
sostenendo l’infondatezza del gravame e chiedendone il rigetto. Inoltre la
seconda proponeva appello incidentale chiedendo venisse
dichiarata la responsabilità esclusiva di D.P..

Anche la Winterthur
proponeva appello incidentale, ma per associarsi a quello
principale, e, quindi, chiedere la condanna dell’A.T.A.C.
a rimborsarle quanto dalla istante versato alla trasportata”.

Con sentenza 28.3-19.4.2000 la Corte d’Appello di Roma
decideva come segue:

“…definitivamente pronunciando sugli
appelli come in atti proposti avverso la sentenza resa tra le parti dal
Tribunale di Roma in data 11.12.1997-13.2.1998 così
provvede:

1) Rigetta l’appello principale di
D.P. e di A.M. e l’appello incidentale delle
Assicurazioni di Roma;

2) In parziale accoglimento
dell’appello incidentale della Winterthur, che
rigetta nel resto, condanna l’A.T.A.C. a pagare alla
medesima la somma di £. 20.000.000 oltre agli interessi della
domanda al saldo;

3) Dichiara interamente compensate
tra tutte le parti le spese del grado”.

Contro questa decisione hanno proposto ricorso principale D.P. e A.M..

Ha resistito con controricorso
l’A.T.A.C. S.p.a., già A.T.A.C..

Ha resistito con controricorso
anche la parte: “Le Assicurazioni di Roma…” (Mutua Assicuratrice Comunale
Romana).

Ha resistito con controricorso
proponendo anche “ricorso incidentale condizionato ex art. 371 2° comma c.p.c.
“la Winterthur Assicurazioni” S.p.a..

Contro detto ricorso incidentale ha
proposto controricorso la predetta parte “Le
Assicurazioni di Roma (Mutua Assicuratrice Comunale Romana), la quale ha anche
depositato memoria.

Motivi della decisione

Anzitutto va disposta la riunione dei
ricorsi supra citati.

Le ricorrenti principali D.P. e A.M., con il primo motivo,
denunciano “violazione degli artt. 115 116 c.p.c., arbitraria ed erronea interpretazione delle risultanza
istruttorie”, esponendo doglianze che possono essere sintetizzate come segue.
La dinamica della sentenza è stata ricostruita sulla
base del rapporto dei Carabinieri e dei rilevamenti da essi eseguiti, nonché
dalla dichiarazioni dell’unico teste L.L.. Le
dichiarazioni rese dalla teste all’udienza non sono diverse da quelle rese ai
Carabinieri.

Ella, già nella prima dichiarazione,
aveva affermato che la ricorrente frenava a causa dell’invasione di marcia del
mezzo A.T.A.C.. Dalle risultanze istruttorie è emerso
che D.P. marciava ad una velocità moderatissima ed è stata trascinata
dall’autobus, che percorreva la strada in salita, per ben 10 metri; i
giudicanti non hanno nemmeno tenuto conto della velocità del mezzo. In entrambi
i gradi di giudizio si ribadisce l’ipotesi che lo
sbandamento, ipotesi secondo loro confermata dalle foto, perché la macchina
oltre ad essere danneggiata anteriormente lo è anche nella parte laterale
sinistra; deduzione illogica ed infondata in quanto l’autovettura veniva urtata
anteriormente e trascinata per oltre 10 metri, scaraventata contro un albero; il
danneggiamento laterale altro non era che la conseguenza dell’urto posteriore e
piegamento del tetto. I giudicanti, non avendo tenuto conto della velocità di D.P., della frenata dovuta
all’invasione del proprio senso di marcia, hanno distorto la dinamica del
sinistro. Non si è nemmeno tenuto conto dello stato dei luoghi. La
testimonianza di A.Me. conferma che l’autovettura non ha sbandato. Dovrebbe, A.Me., spiegare in base a quale
principio una macchina che percorre la strada in discesa, dopo l’urto, riesce a
percorrere oltre 7 metri in salita (sua stessa ammissione) visto che lo stesso
percorreva la strada a velocità moderatissima. A.Me. ha mentito spudoratamente, ha negato di aver invaso
l’opposta corsia di marcia, da un attento esame dello stato dei luoghi è palese
che un automezzo, per affrontare la curva in questione, deve per forza invadere
la corsia opposta.

La
Corte
d’Appello evidenzia che l’ipotesi di sbandamento potrebbe essere confermata dal danneggiamento laterale della Fiat 126, circostanza che non
emerge da nessun atto e tantomeno dalle foto, mentre è vero che le parti
danneggiate sono parte anteriore e tettino e parte
posteriore.

L’addebito della responsabilità
dell’incidente, a carico di D.P.,
pari al 60%, non è stato motivato, come previsto dall’art. 2054.

Il motivo non può essere accolto in
quanto la motivazione contenuta nell’impugnata decisione è sufficiente (anche
se in taluni punti parzialmente implicita), logica,
non contraddittoria e rispettosa della normativa in questione.

E’ opportuno aggiungere che le
doglianze esposte dalle ricorrenti, nella misura in cui si basano su specifiche
risultanze processuali debbono ritenersi inammissibili
prima ancora che prive di pregio per violazione del principio di
autosufficienza del ricorso in quanto non riportano ritualmente il contenuto
delle risultanza stesse (“Nel giudizio di legittimità, il ricorrente che deduce
l’omessa o insufficiente motivazione della sentenza impugnata per mancata o
erronea valutazione di alcune risultanza probatorie ha l’onere, in
considerazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di
specificare, trascrivendole integralmente, le prove non (o mal) valutate,
nonché di indicare le ragioni del carattere decisivo delle stesse”); v. tra le
altre Cass. N. 2838 del 25/03/1999, Cass.n.
3284 del 05/03/2003, e Cass. N. 14262 del 28/07/2004; cfr. Cass. A SEZ. U. n. 8561 del 16/06/2003).
Quanto agli asseriti vizi logici, occorre rilevare che “il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di
legittimità ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ., sussiste solo se nel
ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia
riscontrabile il mancato o deficiente esame dei punti decisivi della
controversia, e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle
prove in senso difforme da quello preteso dalla parte perché la citata norma
non conferisce alla Corte di Cassazione il potere di valutare il merito della
causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della
correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al
quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento e,
all’uopo, valutarne le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere, tra le risultanze probatorie,
quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione”

(Cass. S.U. n.
5802 dell’11/06/1998; v. inoltre, tra le successive: Cass. N. 10406 del
29/05/2004, Cass. n. 8523 del 05/05/2004; e Cass. n.
1025 del 22/01/2004); nella specie le doglianze, al di là
della loro formale enunciazione, consistono in sostanza in una diversa
valutazione in ordine alla scelta, all’interpretazione, all’attendibilità ed
alla concludenza delle risultanze istruttorie idonee
a chiarire i fatti in contestazione, e non costituiscono quindi rituali motivi
di ricorso. Quindi anche le doglianze concernenti asseriti vizi logici debbono ritenersi inammissibili prima ancora che prive di
pregio.

Il primo motivo va quindi respinto.

Le ricorrenti principali D.P. e A.M., con il secondo motivo,
denunciano “violazione degli artt. 1223, 2043 e 2056 c.c., erronea valutazione del danno ed insufficiente
liquidazione” esponendo le seguenti doglianze. I giudici di prime e seconde
cure non hanno tenuto conto della grave menomazione fisica che ha inciso sulla
capacità di svolgimento dell’attività lavorativa specifica e questa a sua volta
sulla capacità di guadagno e di produzione di ricchezza. Dall’elaborato del C.T.U. si evince chiaramente, punto 7, che i postumi
impediscono del tutto lo svolgimento delle attività lavorative esplicate dalla giovane, anche se in modo non continuativo;
la periziando non è in grado di attendere ad altre attività lavorative, date le
sue gravi condizioni neuropsichiche. Nella
liquidazione del danno patrimoniale alla persona il giudice deve accertare in
base alle prove fornite dall’attore danneggiato ed avvalendosi anche delle
presunzioni semplici per il danno da invalidità permanente (che si proietta nel
futuro) in quale misura la menomazione fisica e psichica ha
inciso sulla capacità di svolgimento della attività lavorativa specifica e
questa a sua volta sulla capacità di guadagno. Il danneggiato ha ampiamente
provato che la menomazione fisica e psichica ha inciso sulla capacità
lavorativa specifica, lo stesso C.T.U. e lo
specialista incaricato da quest’ultimo hanno dichiarato che la periziando non è in grado di
effettuare attività che richiedano la necessità di scelte autonome. Per quanto
concerne la liquidazione le doglianze precisate dalla ricorrente nell’atto di appello, pur essendo fondate, sono state tutte disattese;
la liquidazione deve essere fatta non come mero calcolo matematico, ma come
valutazione equitativa in riferimento alla gravità del danno. Inoltre, i danni
materiali liquidati ad A.M. sono notevolmente inferiori a quelli indicati, la
prolungata custodia dell’autoveicolo è stata determinata da
esigenza strettamente cautelative, affinché essa potesse essere messa a
disposizione dell’Autorità Giudiziaria. La Corte di Appello, in
merito alle conclusioni dell’appellante, riferisce che questi non spiegano
quali conclusioni trarne, nessuno ha notato che la comparsa conclusionale, pur
se regolarmente depositata, come risulta dal fascicolo, è stata sottratta.

Il motivo di ricorso deve ritenersi
fondato nella sua parte essenziale.

Questa Corte Suprema, recentemente,
ha più volte affermato che anche una casalinga può trovarsi a subire un danno
di natura patrimoniale qualora si veda in misura maggiore o minore privata per
il futuro della possibilità di svolgere l’attività in questione (appunto quella
di casalinga).

Vanno ricordate in particolare le
seguenti decisioni:

A) “La casalinga, pur non percependo
reddito monetizzato, svolge purtuttavia un’attività
suscettibile di valutazione economica, sicchè va
legittimamente inquadrato nella categoria del danno patrimoniale (come tale
risarcibile autonomamente rispetto al danno biologico) quello subito in
conseguenza della riduzione della propria capacità lavorativa. Il fondamento di
tale diritto, specie quando la casalinga sia
componente di un nucleo familiare legittimo (ma anche quando lo sia in
riferimento ad un nucleo di convivenza comunque stabile) è difatti, pur sempre
di natura costituzionale, ma riposa sui principi di cui agli artt. 4 e 37 della Costituzione (che tutelano, rispettivamente, la scelta
di qualsiasi forma di lavoro, e i diritti della donna lavoratrice), mentre il
fondamento della risarcibilità del danno biologico si fonda sul diverso
principio della tutela della salute” (Cass. n. 15580 dell’11/12/2000).

B) “La casalinga, pur non percependo
reddito monetizzato, svolge, cionondimeno,
un’attività suscettibile di valutazione economica, che non si esaurisce
nell’espletamento delle sole faccende domestiche, ma si estende al
coordinamento, “lato sensu”, della vita familiare,
così che costituisce danno patrimoniale (come tale autonomamente risarcibile
rispetto al danno biologico) quello che la predetta subisca in conseguenza
della riduzione della propria capacità lavorativa, e che sussiste anche nel
caso in cui ella sia solita affidare la parte
materiale del proprio lavoro a persone estranee. Consistendo il danno “de quo”
nella perdita di una situazione di vantaggio, e non rimanendo escluso neanche
dalla mancata sopportazione delle spese sostitutive, legittimo risulta il riferimento, nel relativo procedimento di
liquidazione, al reddito di una collaboratrice familiare, con gli opportuni
adattamenti dettati dalla maggiore ampiezza dei compiti espletati dalla
casalinga” (Cass. n. 10923 del 06/11/1997).

C) “Il danno patrimoniale come
conseguenza della riduzione della capacità lavorativa generica di una persona è
risarcibile autonomamente dal danno biologico soltanto se vi è la prova che il
soggetto leso svolgesse, o fosse presumibilmente in procinto di svolgere un’ attività lavorativa produttiva di reddito, sia pure
figurativo (come nel caso della casalinga)”

(Cass. n. 10015 del 15/11/1996).

Di fronte a tale filone
interpretativo giurisprudenziale parte della dottrina ha anzitutto rilevato che
d esso (ed in particolare dalla sentenza n. 15580/00) sembra emergere la
generalizzata risarcibilità di detta asserita componente
del danno patrimoniale, mentre, sulla base dell’art. 2043 c.c. ( e dalle altere
norme in materia) deve ritenersi che debbono essere risarcite solo le voci di
danno effettivamente esistenti e provate.

Parte della dottrina ritiene poi che
non si possa parlare di una capacità lavorativa specifica della casalinga piochè l’attitudine al lavoro domestico non si riconnette
ad un vero e proprio rapporto di lavoro (retribuito); e poiché inoltre detto lavoro è in ogni caso svolto a titolo gratutito
e quindi non può dar luogo ad un guadagno suscettibile di essere perduto oppure
diminuito. Da ciò deriverebbe che la ritenuta risrcibilità
del danno in questione comporterebbe delle duplicazioni risarcitorie in quanto
la perdita della capacità lavorativa generica è già considerata nell’ambito
della liquidazione del danno biologico.

Secondo talune tesi infine la perdita
o la diminuzione dell’idoneità a svolgere il lavoro casalingo può talora
comportare delle ripercussioni di ordine patrimoniale
ma solo esclusivamente sotto il profilo del danno emergente, ed unicamente
nell’eventualità che si renda necessario il ricorso ad un aiuto esterno. Da ciò
deriverebbe la non configurabilità del danno emergente nel caso che il soggetto
danneggiato avesse affidato detto lavoro a terze persone già prima del
sinistro.

Non sembra che tali critiche riescano
ad inficiare la tesi giurisprudenziale sopra esposta (se esattamente
interpretata).

Quanto alla necessità che la
sussistenza di un danno effettivo debba essere in concreto provata (in
conformità con le regole generali sostanziali e processuali in questione; e
quindi, tra l’altro, anche con la possibilità del ricorso per presunzioni)
basta rilevare che la cosa è certamente indubbia e che non risulta essere stata
messa in discussione (neppure dalla pronuncia n. 15580/00, se ben
interpretata).

Con riferimento poi al fatto che la
casalinga, pur non percependo reddito monetizzato, svolge purtuttavia
un’attività suscettibile di valutazione economica, basta rilevare che ciò è
incontestabile; e la cosa appare in tutta la sua evidenza se si considera che
il venir meno della sua opera può (pacificamente) comportare il sorgere di un
danno (oltre che morale anche) patrimoniale per i familiari (Cfr., tra le tante, Cass. n. 11453 del 03/11/1995: “Il diritto
al risarcimento del danno patrimoniale, che spetta, a norma dell’art. 2043 cod.civ., ai congiunti di persona
deceduta a causa di altrui fatto illecito, richiede l’accertamento che i
medesimi siano stati privati di utilità economiche di cui già beneficiavano e
di cui, presumibilmente, avrebbero continuato a fruire in futuro. Pertanto,
quello subito dal marito e dal figlio minore per il decesso, a seguito
dell’altrui fatto illecito, del congiunto, (rispettivamente moglie e madre),
costituisce, anche nel caso in cui quest’ultimo fosse stato privo di un effettivo reddito personale, danno
patrimoniale risarcibile, concretantesi nella
perdita, da parte dei familiari, di una serie di prestazioni economicamente
valutabili, attinenti alla cura, all’educazione ed alla assistenza, cui il
marito ed il figlio avevano ed hanno diritto nei confronti della rispettiva
moglie e madre nell’ambito del rapporto familiare”; cfr., inoltre, Cass. n.
8970 del 10/09/1998: “Il danno patrimoniale subito dai familiari di una
casalinga deceduta in conseguenza dell’altrui atto illecito, e consistente
nella perdita delle prestazioni domestiche erogate dalla propria congiunta, può
essere legittimamente liquidato facendo riferimento non al reddito di una
collaboratrice domestica, ma al tripli della pensione
sociale”.

A questo punto si impongono
due precisazioni:

A) La radicale evoluzione dei costumi
non consente più di confinare la problematica in questione alla casalinga,
essendo ormai ben possibile il sorgere del danno in questione anche con
riferimento ad una donna che svolga anche attività di casalinga e con
riferimento ad un danneggiato di sesso maschile.

B) Stranamente finora il lavoro
domestico è stato considerato prevalentemente con riferimento all’utilità che
ne ricavano altri, ed in particolare i familiari del soggetto in questione; e
non con l’utilità che ne ricava direttamente quest’ultimo,
ma è evidente che se un soggetto abituato a svolgere detto lavoro solo (ovvero
anche) in proprio favore (si pensi ad una figura sempre più comune: il
cosiddetto “single”; ed in particolare ad un “sigle” che pulisce il proprio
appartamento, lava e stira la propria biancheria, cucina i suoi pasti ecc., senza ricorrere a “colf” ristoranti, lavanderie, ovvero a
soluzioni più radicali come alberghi, pensioni, ecc.) viene a trovarsi privato
in tutto o in parte della propria capacità a provvedere a dette sue necessità insorge
un evidente danno emergente (tipicamente patrimoniale) derivante dal fatto che
dovrà cominciare a ricorrere (in misura maggiore o minore a seconda
dell’invalidità subita) a “colf”, ristoranti, lavanderie, ecc.; quindi, dato
che oggi, una percentuale sempre maggiore di persone (anche se con attività
lavorativa retribuita) dedica parte delle proprie energie lavorative a faccende
domestiche, una sopravvenuta incapacità di attendere alle medesime comporta di
regola un danno patrimoniale sotto il profilo del danno emergente.

Non può peraltro escludersi che detta
incapacità comporti anche un lucro cessante; basta pensare
infatti, ad es., che nell’impresa familiare
(art. 230 bis c.c.) la prestazione lavorativa può (pacificamente) consistere
anche in lavori domestici (purchè – secondo una tesi
– si riflettano sull’andamento dell’impresa accrescendone la produttività) e
che ai sensi del primo comma della norma predetta i diritti (anche di contenuto
più tipicamente patrimoniale; e quindi inerenti ad introiti che in caso di
cessazione danno luogo ad un tipico caso di lucro cessante) del partecipante
all’impresa medesima sono proporzionali alla quantità ed alla qualità del
lavoro prestato ; e quindi sono suscettibili di diminuzione qualora la capacità
di lavoro diminuisca (v. in particolare il primo comma dell’art. 230 bis cit.: “Salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il
familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella
famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la
condizione familiare della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa ed ai
beni acquistati con essi nonchè agli incrementi
dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e
qualità del lavoro prestato…..”.

Da quanto sopra esposto emerge
altresì che l’insorgere di un danno patrimoniale non è in linea generale (salve
le eventuali eccezioni) configurabile se il soggetto danneggiato, già prima
dell’incidente, non svolgeva lavori domestici (va rilevato che l’espressione “lavori
domestici” va intesa in senso ampio e quindi comprensivo anche di quell’attività di “coordinamento, ‘lato
sensu’, della vita familiare”, di cui ha parlato la
sopra citata Cass. n. 10923 del 06/11/1997) in quanto questi erano
integralmente devoluti a, o per altre ragioni; mentre è invece eccezionalmente
configurabile nell’ipotesi, indubbiamente infrequente, che la persona
danneggiata affermi e pio riesca a dimostrare che all’epoca del sinistro era in
procinto di mutare le proprie abitudini (per un cambiamento delle proprie condizioni economiche o per altre ragioni) nel senso
che stava per iniziare a provvedere personalmente, in tutto o in parte, a
lavori prima demandati a colf.

Emerge inoltre che in linea generale
(fatte salve le eccezioni come quella sopra citata di cui all’art. 230 bis
cit.) un danno patrimoniale del danneggiato è possibile solo in
relazione ai lavori domestici svolti in suo favore; mentre con
riferimento ai lavori svolti gratuitamente in favore di altri, gli eventuali
soggetti danneggiati possono essere eventualmente solo questi ultimi.

In conclusione va enunciato il
seguente principio di diritto: “In tema di invalidità
permanente o temporanea il soggetto che perde in tutto od in parte la propria
capacità di svolgere lavori domestici in precedenza effettivamente svolti in
proprio favore ha diritto al risarcimento del conseguente danno patrimoniale
provato (danno emergente ed, eventualmente, anche lucro cessante)”.

Nella fattispecie, la Corte di Appello
di Roma non ha seguito detto principio di diritto.

Inoltre la motivazione appare
insufficiente con riferimento alla possibile attività lavorativa futura di S.P.; tra l’altro, in quanto, dopo
aver dato atto della possibilità di ricorso a presunzioni e del fatto che il C.T.U. definisce l’infortunata “…casalinga con attività
lavorativa saltuaria e varia…” omette di motivare in modo sufficiente sul punto
(specie alla luce del seguente principio di diritto: “In tema di risarcimento
del danno alla persona, la riduzione della capacità lavorativa di un soggetto
che svolge vari e saltuari lavori con qualificati, o dell’operaio non
specializzato, non è assimilabile alla incapacità lavorativa generica,
liquidabile solo nell’ambito del danno biologico, ma è pur sempre fonte di
danno patrimoniale, da valutarsi considerando quale sia stata in concreto la
riduzione della capacità lavorativa specifica del soggetto leso, che può
determinarsi tenendo conto della varietà di attività o di lavorazioni che il
soggetto può essere chiamato a compiere, in riferimento alla situazione
lavorativa specifica, ambientale e personale, del soggetto stesso”; v. Cass. n. 18945 dell’11/12/2003).

Il secondo motivo di ricorso (avente
ad oggetto, esplicitamente od implicitamente, tutti i punti di cui sopra) va
dunque accolto (nella misura sopra indicata, apparendo invece privo di pregio
nel resto).

La ricorrente incidentale Winterthur Assicurazioni S.p.a., con l’unico motivo di “ricorso incidentale condizionato
ex. art. 360 n. 3 c.p.c.,
violazione dell’art. 1916 c.c.” espone le seguenti
doglianze. La
Winterthur Assicurazioni S.p.a., “…nell’ipotesi di
accoglimento del motivo di ricorso principale, incentrato sull’errata
valutazione delle prove raccolte in sede processuale in tema di responsabilità
per la causazione del sinistro…”, propone ricorso incidentale condizionato,
“…invocando la riforma del capo dell’impugnata sentenza relativo all’azione di
regresso esercitata dalla società ricorrente nei confronti delle controricorrenti A.T.A.C. e Le
assicurazioni di Roma, per il risarcimento del danno corrisposto alla sig.ra
S.P. trasportata sull’autovettura delle ricorrenti
principali…”.

Dato che il primo motivo del ricorso
principale è stato respinto, il ricorso incidentale
deve ritenersi assorbito.

In conclusione l’impugnata decisione
va cassata in relazione al motivo accolto (il secondo
del ricorso principale); e la causa va rinviata ad altra sezione della Corte di
Appello di Roma.

A detto Giudice di rinvio va rimessa
anche la decisione sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi; accoglie
il secondo motivo del ricorso principale; rigetta il primo mitivo
di detto ricorso; dichiara assorbito il ricorso incidentale; cassa in relazione
l’impugnata sentenza; e rinvia la causa, anche per la decisione sulle spese del
giudizio di cassazione, ad altra sezione della Corte di Appello
di Roma.

Così deciso a Roma,
3.12.2004