Penale

Friday 21 November 2003

Ancora dubbi circa la legittimità costituzionale del patteggiamento allargato. N. 921 ORDINANZA (Atto di promovimento) 15 luglio 2003.

Ancora dubbi circa la legittimità costituzionale del patteggiamento allargato

N.   921   ORDINANZA (Atto di promovimento) 15 luglio 2003.

  Ordinanza emessa il 15 luglio 2003 dal tribunale di Firenze nel procedimento penale a carico di Magazzini Raffaello ed altri Processo penale – Applicazione della pena su richiesta delle parti – Modifiche normative – Possibilita’ per le parti di formulare la richiesta di cui all’art. 444 cod. proc. pen., come novellato, anche nei processi penali in corso di dibattimento, nei quali risulti decorso il termine previsto dall’art. 446, comma 1, cod. proc. pen. – Sospensione del dibattimento, su richiesta dell’imputato, per un periodo non inferiore a quarantacinque giorni per valutare l’opportunita’ della richiesta – Decorrenza del termine per richiedere la sospensione del processo dalla prima udienza utile anziche’ dalla vigenza della legge – Contrasto con le finalita’ deflattive del rito speciale – Pregiudizio dei diritti della parte civile – Violazione del principio di ragionevolezza – Lesione del principio della ragionevole durata del processo. – Legge 12 giugno 2003, n. 134, artt. 1 e 5, commi 1 e 2. – Costituzione, artt. 3 e 111. (GU n. 46 del 19-11-2003) 

[&]

    Premesso  che  i  difensori  di  Raffaello  Magazzini,  Raffaella

Magazzini,  Roberto Tarfugli e Giuliano Silvestri, imputati del reato

di  circonvenzione  di  incapace,  hanno  chiesto  la sospensione del

processo  ai  sensi dell’art. 5, secondo comma, legge 12 giugno 2003,

n. 134.

                             O s s e r v a

    L’art. 5,   legge   12 giugno   2003,   n. 134,   stabilisce  che

l’imputato,  o  il  suo  difensore  munito di procura speciale, ed il

pubblico ministero, nella prima udienza utile successiva alla data di

entrata  in vigore della legge, possano chiedere l’applicazione della

pena,  ai  sensi  dell’art. 444  c.p.p.,  come novellato dalla stessa

legge,   anche  nei  processi  penali  dei  quali  sia  in  corso  il

dibattimento   ed   anche   se   sia   decorso  il  termine  previsto

dall’art. 446,  comma 1, c.p.p.. La facolta’ e’ concessa anche quando

sia gia’ stata presentata tale richiesta, ma vi sia stato il dissenso

da parte del pubblico ministero o la richiesta sia stata rigettata da

parte  del  giudice,  e sempre che la nuova richiesta non costituisca

mera  riproposizione  della precedente. Su richiesta dell’imputato il

dibattimento e’ sospeso per un periodo non inferiore a quarantacinque

giorni  per  valutare  l’opportunita’  della richiesta e durante tale

periodo  sono  sospesi  i  termini  di  prescrizione  e  di  custodia

cautelare.

    Il  giudicante  dubita  della  legittimita’  costituzionale della

norma per contrasto con gli artt. 3 e 111 della Costituzione.

    Quanto  all’art. 3,  ed in ispecie al principio di ragionevolezza

che    per   consolidatissima   elaborazione   della   giurisprudenza

costituzionale da esso viene dedotto, la norma non appare ragionevole

a)  perche’ consente di formulare la richiesta anche oltre il termine

fissato  dall’art. 446,  primo  comma c.p.p.; quanto all’art. 111, il

contrasto   sussiste   b)  perche’  la  norma  impone,  su  richiesta

dell’imputato,  una sospensione di quarantacinque giorni, fissando il

termine  di decorrenza dalla prima udienza utile successiva alla data

di pubblicazione della legge.

    Sub  a. Il  cosiddetto  patteggiamento  e’  stato  introdotto nel

codice  di  rito  vigente  per  determinare un effetto deflattivo del

processo  penale: si e’ concesso alle parti di concordare la pena per

evitare  i  costi in termini di tempo, di risorse umane e finanziarie

che  il  rito  ordinario  comporta;  in  cambio  di  tale  risparmio,

l’imputato  gode  di  uno sconto di un terzo della pena. La finalita’

indicata  e’  stata  ribadita anche dalla Corte costituzionale con la

sentenza  n. 129 del 1993, in cui si afferma, con riferimento ai riti

speciali,  che  «l’interesse dell’imputato a beneficiare dei vantaggi

conseguenti  a  tali giudizi in tanto rileva, in quanto egli rinunzia

al  dibattimento e venga percio’ effettivamente adottata una sequenza

procedimentale  che consenta di raggiungere l’obiettivo di una rapida

definizione del processo», deducendone la legittimita’ costituzionale

della   preclusione  dei  riti  speciali  in  caso  di  contestazione

suppletiva.  Se  questa e’ la finalita’ dell’applicazione della pena,

lo sbarramento previsto dall’art. 446, primo comma, e’ necessario per

garantire  che la finalita’ venga nel concreto perseguita. La novella

opera,  per  i  processi  in  corso  al  momento della sua entrata in

vigore,  una  scelta del tutto contraria: consente infatti il ricorso

al rito speciale in ogni momento, perfino quando sia stato dichiarato

chiuso  il  dibattimento  e  ci si trovi gia’ in fase di discussione.

Consente,  cioe’,  la  riduzione  della pena anche a chi non ha fatto

risparmiare  alcuna risorsa allo stato, e cio’ appare irragionevole e

contrasta  con  le  finalita’  del  rito  speciale,  cioe’  la rapida

definizione  del  singolo  processo  e  l’efficienza  complessiva del

sistema   giudiziario  penale,  oggi  costituzionalmente  valorizzate

dall’art. 111 Cost.

    Sub  b. La  sospensione  per  quarantacinque  giorni del processo

contrasta, ad avviso del giudicante, con l’art. 111 appena richiamato

oltre che, sotto diverso profilo, con l’art. 3 Cost. Il contrasto con

il  principio  della ragionevole durata del processo appare chiaro se

si  da’  della  riformata  norma costituzionale una lettura che abbia

riguardo  non solo all’interesse di ogni singolo imputato, ma anche a

quello  di  tutte  le  altre  parti  processuali,  dello  stato e dei

cittadini  in  generale.  Infatti,  se  la  speditezza processuale si

intende  come  forma  di tutela del singolo imputato, la richiesta di

rito   alternativa   avanzata   nel  corso  di  un  processo  in  cui

l’istruttoria  dibattimentale  sia  iniziata o addirittura terminata,

non  incontrerebbe  ostacoli  nell’art. 111 Cost., dal momento che il

singolo  imputato,  a  seconda  dei casi, ha interesse ad un processo

piu’  lungo  nella speranza della prescrizione del reato, oppure piu’

breve, attraverso riti alternativi, quando la prescrizione sia ancora

lontana.  Si  ritiene, invece, piu’ fondata una lettura del principio

della  ragionevole  durata  del  processo  quale garanzia dell’intera

collettivita’, sulla scorta delle considerazioni che seguono.

    In  primo  luogo  si  osserva  che la regola di cui si discute e’

contenuta  nel  secondo  comma  dell’art. 111,  relativo  a  tutti  i

processi,  non solo a quello penale. Cio’ evidenzia in maniera chiara

che  il  principio  non  puo’ essere inteso solo come funzionale agli

interessi  di  una  sola  delle  parti  di  uno solo dei vari tipi di

processo  che  il nostro ordinamento prevede. Sono i commi successivi

della  norma che si occupano specificamente del processo penale e che

prevedono  garanzie  dell’imputato, nessuna delle quali, tuttavia, e’

delineata  in  maniera  tale  da  derogare  apertamente  alla  regola

generale  della  ragionevole  durata.  Unica  di tali garanzie che in

qualche modo s’interseca con il principio generale e’ quella inerente

il  diritto  dell’imputato  a  disporre  del tempo e delle condizioni

necessarie a preparare la sua difesa, che tuttavia riguarda il merito

dell’accusa, non la semplice strategia processuale, e sarebbe percio’

richiamata  a   sproposito  nella  materia  di  cui si sta discutendo,

soprattutto  quando il punto di scontro fra le due esigenze si situa,

come avviene applicando la norma transitoria, a dibattimento iniziato

o  perfino  concluso,  cioe’ in un momento in cui l’imputato ha ormai

impostato o anche attuato la sua linea difensiva.

    L’interpretazione  dell’art. 111  Cost.  che collega il principio

della  ragionevole durata non ai contingenti interessi dell’imputato,

ma  a  quello  della  collettivita’,  si avvalora poi alla luce della

produzione legislativa che ha fatto seguito alla modifica della norma

costituzionale.  Si  consideri che la legge 24 marzo 2001, n. 89, che

consente  alle  parti un’equa riparazione allorche’ il processo abbia

avuto  una  durata  eccessiva,  indipendentemente  dalle  ragioni che

l’abbiano  determinata,  attribuisce  il diritto all’equa riparazione

non  solo all’imputato, ma anche alla parte civile. Da cio’ si evince

che  la ragionevole durata del processo penale non e’ un diritto solo

dell’imputato,  ma  anche delle altre parti processuali, ivi compresa

la parte civile, il che costituisce chiaro indice della sua natura di

principio generale, non di forma di tutela di una parte.

    Se   poi  si  ha  riguardo  agli  effetti  concreti  della  norma

denunciata  nello  svolgimento  dei processi, l’implausibilita’ della

lettura  del  principio della ragionevole durata come tutela del solo

imputato,  da  questi  disponibile  e rinunciabile discrezionalmente,

risulta  ancor  piu’  chiara. Si consideri che nell’attuale sistema i

poteri  istruttori,  e  conseguentemente quelli decisori, del giudice

sono  stati  ampiamente ridotti in favore di quelli delle parti. Ogni

volta   che   sia   disposta   la   rinnovazione   del  dibattimento,

l’istruttoria  dibattimentale  deve  ricominciare  da capo, salvo nel

caso  in cui le parti prestino il consenso alla lettura degli atti in

precedenza  svolti.  Percio’, se il processo ha piu’ imputati, di cui

solo  uno  chieda la sospensione, ai sensi dell’art. 5, comma 2 della

legge  134  citata,  il  giudice  deve,  innanzitutto,  stabilire  se

proseguire  il  giudizio nei confronti dei coimputati, stralciando la

posizione  del richiedente – opzione che sembra la piu’ corretta alla

luce  dell’attuale  formulazione dell’art. 18, lett. b)c.p.p., ma che

puo’   rivelarsi   inutile,   se   il   rito  alternativo  non  viene

concretamente  richiesto,  con  dispendio  di  energie e di attivita’

processuali  -;  oppure se, anziche’ sospendere il processo anche nei

confronti  dei  coimputati,  rinviarlo  in  attesa  del  decorso  dei

quarantacinque   giorni   prescritti.   In   quest’ultimo   caso,  se

l’interessato  poi  chiede  l’applicazione della pena, l’accoglimento

dell’istanza  rende  il  giudice  incompatibile a giudicare gli altri

coimputati,  mentre  il  rigetto  della richiesta lo rende ugualmente

incompatibile a giudicare l’imputato: se non si procede allo stralcio

gia’  al momento della richiesta di sospensione, quindi, il processo,

per  la  parte  che  prosegue  con  rito ordinario, deve in ogni caso

iniziare   ex   novo  innanzi  ad  altro  giudice,  con  rinnovazione

dell’istruttoria   dibattimentale.   In   tale  ipotesi,  non  vi  e’

speditezza  processuale  ne’  per l’interessato ne’ per i coimputati,

ma,  al contrario, una dilatazione dei tempi della decisione. La cosa

e’ particolarmente evidente quando l’istruttoria e’ gia’ esaurita: ad

una   decisione   con  rito  ordinario  ormai  certa  nel  tempo,  si

sostituisce  un’attivita’  interlocutoria di sospensione che potrebbe

concludersi con il rigetto della richiesta di applicazione della pena

e  con  la  necessita’  di  iniziare  nuovamente il processo con rito

ordinario,  in  caso  di  unico  imputato;  oppure,  se  vi sono piu’

imputati  ed  uno  solo  chiede  il rito alternativo, con lo stralcio

delle  posizioni  degli eventuali coimputati, per i quali il processo

ricomincerebbe, anche se fosse ormai conclusa l’istruttoria.

    Il  giudicante  non  ignora  che  la  Corte  costituzionale,  con

sentenza n. 266 del 1992, ha affermato che «l’applicazione della pena

concordata  con  il  pubblico ministero da uno solo degli imputati di

concorso  nel  medesimo  reato costituisce un procedimento congegnato

come pattuizione tra imputato richiedente e parte pubblica, in ordine

al  quale  e’  previsto  un controllo giurisdizionale che non include

pero’  la  valutazione delle posizioni dei coimputati». La questione,

tuttavia,  era  stata esaminata solo con riferimento all’art. 3 Cost.

ed   inoltre  era  relativa  ad  una  disposizione  ordinaria  e  non

all’introduzione   di   una   norma  transitoria,  come  quella  oggi

denunciata,  che  mira ad applicare l’istituto a tutti i procedimenti

in  corso,  anche  se  in  fase  dibattimentale,  sicche’ quella oggi

sollevata  e’  questione  nuova e diversa. Inoltre la sentenza citata

era antecedente alla riforma dell’art. 111 Cost.

    Sempre  in  punto  di  effetti concreti delle norme impugnate, si

osserva, ancora, che, nel caso di applicazione della pena in corso di

giudizio,  l’esercizio  del  diritto  di  azione  della  parte civile

costituita,    garantito    dell’art. 24   Cost.,   viene   oltremodo

sacrificato,  giacche’  tutta  l’attivita’  processuale  fino  a quel

momento  svolta  si  vanifica  nel  merito  e  puo’ portare solo alla

condanna  alle  spese,  in forza della sentenza n. 443 del 1990 della

Corte  costituzionale.  E  se  e’  vero che il giudice delle leggi ha

risolto   nel   limitato   senso   indicato   il   problema  relativo

all’esclusione della parte civile nel rito de quo, e’ anche vero che,

di   nuovo,   la  decisione  si  riferiva  al  sistema  ordinario  di

applicazione  della  pena e non ad una norma transitoria, come quella

in  esame,  che interviene a disciplinare un giudizio in corso in cui

la  parte civile sta gia’ esercitando o addirittura ha gia’ del tutto

esercitato  il  proprio  diritto  di azione. Sicche’ anche sotto tale

aspetto  la  frustrazione  dei  diritti  della  parte  civile e della

ragionevole  durata  –  anche  per essa – del processo finisce con il

violare   i  principi  di  ragionevolezza  e  di  ragionevole  durata

stabiliti dagli artt. 3 e 111 Cost.

    Sia in astratto che in concreto, percio’, una norma, quale quella

di  cui  si  discute,  che  consente  all’imputato  di dilazionare ad

libitum  per  ben  quarantacinque  giorni  il  giudizio, senza alcuna

conseguenza negativa in caso di mancato ricorso al patteggiamento, ad

avviso  del  giudicante  stride  in maniera evidente con il principio

della   ragionevole   durata   del   processo  letto  come  interesse

dell’intera collettivita’.

    Il  contrasto  appare poi ancor piu’ chiaro, e risulta assai poco

ragionevole  la  disciplina  della  novella, con ulteriore violazione

dell’art. 3  Cost.,  in  relazione  alla  decorrenza  del termine per

richiedere  la  sospensione  del  processo dalla prima udienza utile,

anziche’  dalla  pubblicazione  della  legge.  Sotto  tale profilo si

osserva che ogni cittadino e’ tenuto a conoscere le leggi pubblicate.

Pertanto ogni imputato e’ stato posto in grado, nel momento in cui la

legge  in  esame  e’  stata pubblicata, di valutare l’opportunita’ di

avvalersi  della pena concordata, tanto piu’ se si considera che ogni

imputato  e’  assistito  da  un  difensore,  sicche’ ha avuto modo di

consultarsi con questi per valutare l’opportunita’ di avvalersi della

novella.  La concessione di un termine di durata notevole, decorrente

dalla  prima  udienza  anziche’  dalla  vigenza  della  legge, appare

irragionevole.   Tale  irragionevolezza  risulta  di  tutta  evidenza

allorche’  la  fase  istruttoria  sia  esaurita  o  il  processo  sia

addirittura  in  fase  di  discussione,  e,  quindi, l’imputato abbia

potuto  valutare tutto il materiale probatorio e rendersi conto della

convenienza  eventuale di concordare la pena. Una volta accertato che

il  rapporto  esistente tra imputato e difensore consente ad entrambi

di valutare momento per momento le opportunita’ di scelte processuali

e  che,  dunque, non v’e’ lesione del diritto di difesa se si dispone

che l’imputato, alla prima udienza utile, debba dichiarare se intende

patteggiare  o no, anziche’ chiedere un lungo termine di riflessione,

deve  ritenersi  che la sospensione obbligatoria incida – si passi il

bisticcio  – irragionevolmente sulla ragionevole durata del processo.

Nel   bilanciamento   tra  l’interesse  dell’imputato  e  l’interesse

generale  alla ragionevole durata del processo sembra debba prevalere

quest’ultimo, non indiscriminatamente il primo.

    Ancora,  lo  spatium  deliberandi  obbligatorio  appare   istituto

nuovo, quantomeno nell’ambito del processo penale, e contrastante con

le soluzioni adottate anche di recente dal legislatore: si consideri,

ad esempio, che la legge 25 giugno 1999, n. 205, che ha introdotto la

procedibilita’  a  querela  per  il   reato di furto, nella disciplina

transitoria  dell’esercizio  del  diritto  di  querela  per  i  reati

commessi  prima  dell’entrata  in  vigore  della legge stessa, di cui

all’art. 19,   non   prevedeva,   per  i  processi  pendenti,  alcuna

sospensione   automatica  del  processo  per  un  tempo  necessario  a

decidere  se  proporre  querela,  ma  solo un obbligo di informazione

della  persona  offesa circa la facolta’ di esercitare tale diritto e

la decorrenza del termine di cui all’art. 124 c.p. dal momento in cui

veniva  ricevuta  l’informazione  che,  se l’interessato era presente

all’udienza,  si  identificava  con  l’udienza stessa. Per i processi

relativi  a  fatti  anteriori  all’entrata  in vigore della legge, ma

iniziati  successivamente all’entrata in vigore stessa, la legge – in

coerenza  con  l’obbligo  di  conoscenza  delle norme – non prevedeva

invece  alcuna  informazione  ed  il  termine  per  proporre  querela

decorreva  dall’entrata  in  vigore  della  legge.  La  norma  che si

denuncia  ha  invece  operato  scelte  diverse  senza  alcuna ragione

apparente   o   cogente,  ma  –  sembra  di  capire  –  per  mero  ed

ingiustificato  favor  nei  confronti  degli  imputati anche di gravi

reati.

    In  punto  di  rilevanza  si  osserva  che  in questo processo si

verificano   alcune   delle   situazioni   che  vengono  pregiudicate

dall’improvvida  scelta  legislativa. Il processo avrebbe dovuto oggi

concludersi,  con l’audizione dei due ultimi testi di riferimento. Il

dibattimento e’ in corso da un anno quasi esatto, essendo iniziato il

17 luglio  2002. Sono stati sentiti ventotto testi, nel corso di otto

udienze,  incastonate nei turni di udienza, monocratica e collegiale,

di  questo  giudice,  con grandi difficolta’, dovute agli impegni del

pubblico  ministero  e  dei  numerosi  difensori:  vi e’ stato dunque

grande  dispendio  di energie della macchina della giustizia, impegno

che  potrebbe  divenire  del  tutto  vano,  qualora  la  richiesta di

patteggiamento fosse effettivamente perseguita. Tale evenienza appare

al  giudicante  del tutto irragionevole. Vi sono tre parti civili che

hanno  esercitato  il  loro  diritto  di  azione citando ed escutendo

numerosi  testi  ed  un consulente tecnico, che potrebbero vedere del

tutto  vanificato  lo sforzo durato. Dunque, e’ ipotizzabile, in caso

di  effettiva  applicazione  della  pena, una stridente disparita’ di

trattamento fra le parti di questo processo: gli imputati che vengono

«premiati»  con  uno sconto di pena senza alcuna contropartita per la

collettivita’;  le  parti civili che invece vengono oltremodo punite,

perche’  dovranno ricominciare daccapo la causa civile in altra sede,

vedendo  allontanarsi in un futuro certamente remoto la decisione cui

hanno  costituzionalmente  diritto. Oltre a cio’, in ogni caso, cioe’

anche  se  non  vi  sara’  richiesta  di  applicazione della pena, la

semplice  sospensione  inciderebbe sulla ragionevole durata di questo

processo.

                                           P. Q. M.

    Vista  la  legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 e l’art. 23

della  legge  11 marzo  1953,  n. 87;  ritenutala  non manifestamente

infondata  e  rilevante  ai  fini  del  presente giudizio, solleva la

questione  di  legittimita’ costituzionale dell’art. 1 e dell’art. 5,

commi  primo  e  secondo,  della  legge  12 giugno  2003,  n. 134 per

contrasto  con  gli artt. 3 e 111 della costituzione nei limiti e nei

termini  di cui in motivazione. Sospende il giudizio in corso. Ordina

la  trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Dispone che la

presente  ordinanza  sia  notificata  al Presidente del Consiglio dei

ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.

        Firenze, addi’ 15 luglio 2003

                        Il giudice: Lamberti

03C1193