Civile

Tuesday 15 January 2008

Il risarcimento dei danni da trasfusione.

Il risarcimento dei danni da
trasfusione.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONI
UNITE CIVILI Sentenza 11 gennaio 2008, n. 581

Svolgimento del processo

Con atto notificato il
27.10.1999, 223 attori convenivano davanti al tribunale di Roma il Ministero
della Sanità, chiedendone la condanna al risarcimento del danno, da liquidarsi
in separato giudizio, ai sensi degli artt. 2043, 2049 e 2050 c.c. per non avere
evitato che agli attori o ai loro danti causa, che necessitavano per patologie
congenite di continue trasfusioni, venissero
somministrati prodotti emoderivati senza i necessari controlli, per cui questi
contraevano varie affezioni, quali HIV, HBV ed HCV, alle quali a distanza di
alcuni anni in alcuni casi seguiva la morte.

Intervenivano in giudizio anche
altri soggetti che assumevano anch’essi di aver contratto il contagio e di
avere diritto al risarcimento del danno.

Il Tribunale accoglieva la domanda
di condanna generica al risarcimento del danno. L’appello proposto dal
Ministero veniva rigettato dalla corte di appello di
Roma, con sentenza depositata il 12.1.2004.

Riteneva la corte territoriale
che l’eccezione di prescrizione era infondata, in quanto a norma dell’art. 2935
c.c. il diritto può essere esercitato solo allorché il titolare abbia raggiunto
la piena cognizione dell’esistenza e del fondamento del medesimo, ed
individuando il dies a quo nel momento del rilascio delle certificazioni relative
all’indennizzo di cui alla legge n. 210 del 1992 da parte delle
Commissioni medico ospedaliere. Riteneva la corte di merito che il
termine di prescrizione era decennale, trattandosi di fattispecie di reati di
epidemia colposa, lesioni colpose plurime e di omicidio colposo. Nel merito
riteneva la corte che, trattandosi di accertamento del solo an debeatur non era
necessario valutare la prescrizione in relazione alle singole posizioni,
attenendo tale valutazione al successivo giudizio di liquidazione dei danni,
mentre risultava accertata la riconducibilità degli eventi dannosi alla
responsabilità dell’amministrazione per essere gli stessi stat i causati da
emotrasfusione o assunzione di emoderivati con sangue infetto, come
riconosciuto dallo stesso Ministero che aveva erogato l’indennità di cui alla
legge n. 210 del 1992.

Riteneva poi il giudice di
appello che l’Amministrazione era in possesso delle fin dagli anni ’70 di
elementi di studio e di ricerca tali da consentire di individuare almeno il
virus dell’epatite B e quindi da rendere obbligatoria l’adozione di misure di
prevenzione. La corte riconosceva, inoltre, agli attori anche il diritto al
risarcimento del danno morale. Nelle more interveniva una transazione tra il
Ministero e gran parte degli attori. Il Ministero della salute impugnava la
sentenza della corte di appello nei confronti dei soggetti con cui non aveva
transatto la lite e cioè: …vari….

I predetti intimati, ad eccezione
degli ultimi tre, resistevano con controricorso; essi hanno presentato anche
memoria.

Motivi della decisione

1.1. La causa è
stata rimessa alle Sezioni Unite, presentando questioni di massima di
particolare importanza relative: al nesso causale in tema di responsabilità
civile, segnatamente da condotta omissiva; al dies a quo della prescrizione per
il risarcimento dei danni lungolatenti; alla responsabilità del Ministero della
Salute per danni "da sangue infetto".

1.2. Preliminarmente va
dichiarato inammissibile il ricorso nei confronti di A. C., per sopravvenuta carenza
di interesse.

Infatti
come risulta dalla documentazione prodotta da quest’ultima, tra lei ed il
Ministero della Salute è intervenuta una transazione, la quale, comportando la
cessazione della materia del contendere, fa venire meno l’interesse del
ricorrente alla decisione del ricorso nei confronti dell’A..

1.3.Con
il primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa
applicazione degli artt. 2697, 2934, 2935, 2943, 2946, 2947 c.c., 112 c.p.c, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria
motivazione su un punto decisivo della controversia, a norma dell’art. 360, n.
3, 4 e 5 c.p.c..

Il ricorrente assume che
erratamente, ai fini della prescrizione, nel corso del giudizio di merito non
sono state vagliate autonomamente le varie posizioni degli attori, risalenti a
diversi momenti, giustificando ciò con il rilievo che nella fattispecie si
trattava di domanda di condanna generica al risarcimento del danno. Assume poi
che i fatti nella maggior parte dei casi si collocavano tra il 1978 ed il 1988
e che quindi al momento della proposizione della domanda erano maturate sia la
prescrizione decennale che quella quinquennale, le quali andavano valutate con
riferimento al verificarsi del danno.

Secondo il ricorrente in ogni
caso il termine di prescrizione è quinquennale e non decennale, sia perché il
convenuto nel giudizio risarcitorio non coincide con l’autore dell’illecito
penale, sia perché manca l’esistenza dell’elemento soggettivo del reato , sia perché nella fattispecie sussistevano cause di
giustificazione, quali la scriminante dell’attività medico-chirurgica e quella
del consenso dell’avente diritto. 2.1. Il motivo è solo in
parte fondato.

Esso è fondato nella parte in cui
censura l’impugnata sentenza, allorché questa ritiene che la posizione dei
singoli attori, ai fini dell’eccepita prescrizione, non fosse rilevante nella
fattispecie, trattandosi di accertamento del solo an debeatur, mentre solo nel
successivo giudizio di quantificazione del danno tale singole posizioni
andavano vagliate ai fini della prescrizione.

Infatti
non rileva che, nella specie, fosse stata chiesta una condanna in forma
generica, dal momento che anche questo tipo di statuizione conforma
autoritativamente i contenuti sostanziali del rapporto obbligatorio, imponendo
all’obbligato di eseguire una prestazione e rende il vincitore titolare di
actio iudicati (cfr. Cass. n. 18825 del 2002; n. 3727 del 2000), cosicché’ la
parte convenuta ha l’onere di eccepire tempestivamente la prescrizione,
essendole precluso di farlo nel giudizio sul quantum (cfr. Cass. n. 3243 del
1985; n. 5211 del 1980).

Pertanto anche a fronte di una
domanda di condanna in forma generica, il convenuto che assuma che il proprio
debito sia in tutto o in parte prescritto ha l’onere di sollevare la relativa
eccezione in tale giudizio nei termini di legge a pena di decadenza (cfr. Cass., 23/04/2004, n.7734; Cass. 27/05/2005, n.11318). Ciò
comporta che il giudice di primo grado ha l’obbligo di decidere su tale
eccezione, che integra una preliminare di merito, per cui
l’eventuale sussistenza della prescrizione fa venir meno ogni interesse della
parte all’accertamento dell’esistenza del diritto azionato (Cass. 04/04/1992,
n.4151; Cass. 1/08/1987, n.6651).

Solo così impostata e risolta la
questione si intende il conseguenziale principio secondo cui la sentenza di
condanna generica passata in giudicato determina l’assoggettamento dell’azione
diretta alla liquidazione al termine prescrizionale di cui all’art. 2953 ce,
nonché la produzione degli effetti interruttivi della prescrizione nei
confronti di coloro che hanno esercitato le azioni concluse con la condanna
generica (Cass. 15/09/1995, n.9771; Cass. 13/12/2002, n.17825; Cass.
04/04/2001, 4966 ).

2.2.Fondata
è anche la censura secondo cui nella fattispecie non è ipotizzabile un reato di
epidemia colposa o lesioni colpose plurime.

Per poter usufruire di un termine
più lungo di prescrizione rispetto a quello quinquennale di cui all’art. 2947,
c. 1, ce, sarebbe necessario ritenere ipotizzabili i
reati di lesioni colpose plurime o di epidemia colposa, o omicidio colposo, per
i quali i termini prescrizionali erano di dieci anni.

Sebbene il regime della
prescrizione penale sia cambiato (L. 5.12.2005, n. 251), va, tuttavia,
osservato che la prescrizione da considerare , ai fini
civilistici di cui all’art. 2947, c. 3, è quella prevista alla data del fatto,
mentre i principi di cui all’art. 2 c.p. attengono solo agli aspetti penali,
per effetto di successioni di leggi penali nel tempo. Nella fattispecie è da
escludere il reato di epidemia colposa (art. 438.452 c.p.), in quanto
quest’ultima fattispecie, presupponente la volontaria diffusione di germi
patogeni, sia pure per negligenza, imprudenza o imperizia, con conseguente
incontrollabilità dell’eventuale patologia in un dato territorio e su un numero
indeterminabile di soggetti, non appare conciliarsi con l’addebito di
responsabilità a carico del Ministero, prospettato in termini di omessa
sorveglianza sulla distribuzione del sangue e dei suoi derivati: in ogni caso,
la posizione del Ministero è quella di un soggetto non a diretto contatto con
la fonte del rischio. A ciò si aggiunga che elementi connotanti il reato di
epidemia sono : a) la sua diffusività incontrollabile
all’interno di un numero rilevante di soggetti, mentre nel caso dell’HCV e
dell’HBV non si è al cospetto di malattie a sviluppo rapido ed autonomo verso
un numero indeterminato di soggetti; b) l’assenza di un fattore umano
imputabile per il trasferimento da soggetto a soggetto, mentre nella
fattispecie è necessaria l’attività di emotrasfusione con sangue infetto; c) il
carattere contagioso e diffuso del morbo, la durata cronologicamente limitata
del fenomeno (poiché altrimenti si verserebbe in endemia). Va esclusa anche la
configurabilità del reato di lesioni colpose plurime, stante l’impossibilità di
individuare in capo al Ministero una condotta omissiva unica dalla quale
scaturirebbero le lesioni sofferte dai vari danneggiati, tanto più se si tiene
conto che le singole attività di omissioni di controllo e vigilanza fanno capo
a diversi soggetti (persone fisiche) succedutisi nel tempo con diversi e successivi
atti di autorizzazione alla commercializzazione ed al consumo di partite di
sangue.

2.3.Rimane,
quindi, solo la configurabilità dei reati di lesioni colpose, anche gravissime,
o del reato di omicidio colposo non potendosi negare che il comportamento
colposamente omissivo da parte degli organi del Ministero preposti alla
farmacosorveglianza sia stata una causa, quanto meno concorrente, nella
produzione dell’evento dannoso. Sennonché va osservato che la prescrizione
decennale nell’ipotesi di configurabilità di omicidio colposo opera solo in
favore di quegli attori (congiunti del contagiato) che abbiano agito in
giudizio (iure proprio) per il risarcimento del danno causato dal decesso
ascrivibile all’emotrasfusione (o all’assunzione di emoderivati) con sangue
infetto e non per tutti gli altri attori che abbiano agito nello stesso
giudizio solo per richiedere il risarcimento del danno conseguente a lesioni
colpose.

2.4.Quando,
invece, ricorra solo quest’ultima ipotesi (lesioni colpose) va osservato che
anche la prescrizione del reato di lesioni colpose matura in cinque anni.

2.5.Infondata
è la censura secondo cui non sarebbe possibile nella fattispecie
un’equiparazione del termine prescrizionale civile a quello penale ( nei
termini di cui all’art. 2947, c. 3, ce.) non essendo il Ministero l’autore
dell’illecito penale.

Infatti
in tema di prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante da
fatto illecito, la previsione dell’art. 2947, c. 3, et. si riferisce, senza
alcuna discriminazione, a tutti i possibili soggetti passivi della pretesa
risarcitoria e si applica, pertanto, non solo all’azione civile esperibile
contro la persona penalmente imputabile, ma anche all’azione civile diretta
contro coloro che siano tenuti al risarcimento a titolo di responsabilità
indiretta (Cass. 09/10/2001, n.12357; Cass. 6/02/1989, n.729).

2.6.Infondata
è anche la censura secondo cui la corte territoriale non avrebbe valutato
l’esistenza dell’elemento psicologico, pur necessario ai fini della ritenuta
sussistenza dei reati di omicidio colposo (per le sole fattispecie in cui
ricorra) o lesioni colpose. E’ vero che nel caso in cui l’illecito civile sia considerato dalla legge come reato, ma il giudizio
penale non sia stato promosso, l’eventuale più lunga prescrizione prevista per
il reato si applica anche all’azione di risarcimento dei danni, a condizione
che il giudice civile accerti "incidenter tantum" la sussistenza di
una fattispecie che integri gli estremi di un fatto-reato in tutti i suoi
elementi costitutivi, soggettivi e oggettivi (Cass. 28/07/2000, n.9928; Cass.
10/06/1999, n.5701).

Sennonché nella fattispecie la
sentenza impugnata (pag. 16) riscontra l’elemento colposo dell’Amministrazione:
( e, quindi, dei suoi funzionari) nel non adottare gli accorgimenti utili a
scongiurare il contagio di tali note patologie effettuando determinati
trattamenti ed analisi del sangue acquisito.

2.7.Inammissibile
è la censura secondo cui l’Amministrazione avrebbe agito in presenza l’attività
medico-chirurgica e del consenso dell’avente diritto e che di tener conto il
giudice di appello. A parte ogni altra considerazione, va rilevato che il
ricorrente non ha indicato se e quando tale questione sia stata posta all’esame
del giudice di merito, non risultando sul punto alcunché nella sentenza
impugnata.

Qualora una determinata questione
giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in
alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta
questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di
inammissibilità, per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare
l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche,
per il principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione, di indicare in
quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto,
onde dar modo alla Corte di controllare "ex actis" la veridicità di
tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass.
21/02/2006, n.3664; Cass. 22/05/2006, n. 11922 ; Cass.
19/05/2006, n. 11874;Cass. 11/01/2006, n. 230).

3.1. Il punto di maggior rilievo
è l’individuazione del dies a quo per la decorrenza della prescrizione in
ipotesi di fatto dannoso lungolatente, quale è quello relativo a malattia da
contagio.

Come è noto, in base all’art.
2935 ce, norma assolutamente aperta a molteplici e contrapposte
interpretazioni, la prescrizione della pretesa risarcitoria inizia a decorrere
dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere. L’art. 2947, 1° comma,
ce. aggiunge che il diritto al risarcimento del danno
da fatto illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il «fatto si è
verificato».

Nell’evoluzione giurisprudenziale
questa Corte (Cass. n. 12666 del 2003; Cass. n. 9927 del 2000) ha affrontato il
significato da attribuirsi all’espressione «verificarsi del danno»,
specificando che il danno si manifesta all’esterno quando
diviene «oggettivamente percepibile e riconoscibile» anche in relazione alla
sua rilevanza giuridica. La
Corte, successivamente, ha ritenuto che il termine di
prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di avere
contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo
inizia a decorrere, a norma dell’art. 2947, 1° comma, ce non dal momento in cui
il terzo determina la modificazione che produce danno all’altrui diritto o dal
momento in cui la malattia si manifesta all’esterno, ma dal momento in cui la
malattia viene percepita o può essere percepita quale
danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo,
usando l’ordinaria diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenz e
scientifiche. Qualora invece non sia conoscibile la causa del contagio, la
prescrizione non può iniziare a decorrere, poiché la malattia, sofferta come
tragica fatalità non imputabile ad un terzo, non è idonea in sé a concretizzare
il "fatto" che l’art. 2947, 1° comma, ce. individua
quale esordio della prescrizione (Cass. 21/02/2003, n.2645 ; Cass. 05/07/2004,
n. 12287; Cass. 08/05/2006, n. 10493).

Viene
applicato, unitamente al principio della «conoscibilità del danno», quello
della «rapportabilità causale».

3.2.Ritengono
queste Sezioni Unite di dover condividere tale ultimo orientamento.
L’individuazione del dìes a quo ancorata solo ed esclusivamente al parametro
deH’«esteriorizzazione del danno» può, come visto, rivelarsi limitante ed
impedire una piena comprensione delle ragioni che giustificano l’inattività
(incolpevole) della vittima rispetto all’esercizio dei suoi diritti.

È quindi del tutto evidente come
l’approccio all’individuazione del dies a quo venga a spostarsi da una mera
disamina dell’evolversi e dello snodarsi nel tempo delle conseguenze lesive del
fatto illecito o dell’inadempimento – e cioè delle diverse tappe che
caratterizzano il passaggio dal danno «occulto» a quello che si manifesta nelle
sue componenti essenziali ed irreversibili – ad una rigorosa analisi delle
informazioni, cui la vittima ha avuto accesso o per la cui acquisizione si
sarebbe dovuta diligentemente attivare, della loro idoneità a consentire al
danneggiato una conoscenza, ragionevolmente completa, circa i dati necessari
per l’instaurazione del giudizio (non solo il danno, ma anche il nesso di causa
e le azioni/omissioni rilevanti) e della loro disponibilità in capo al
convenuto, con conseguenti riflessi sulla condotta tenuta da quest’ultimo
eventualmente colpevole di non avere fornito quelle informazioni alla vittima,
nei casi in cui era a ciò tenuto ( ciò è pacifico negli ordinamenti
anglosassoni, in tema di medicai malpractice).

3.3.Va specificato che il
suddetto principio in tema di exordium praescriptionis ,
non apre la strada ad una rilevanza della mera conoscibilità soggettiva del
danneggiato. Esso deve essere saldamente ancorato a due parametri obiettivi,
l’uno interno e l’altro esterno al soggetto, e cioè da un lato al parametro
dell’ordinaria diligenza, dall’altro al livello di conoscenze scientifiche
dell’epoca, comunque entrambi verificabili dal giudice senza scivolare verso
un’indagine di tipo psicologico. In particolare, per quanto riguarda l’elemento
esterno delle comuni conoscenze scientifiche esso non andrà apprezzato in
relazione al soggetto leso, in relazione al quale l’ordinaria diligenza
dell’uomo medio si esaurisce con il portarlo presso una struttura sanitaria per
gli accertamenti sui fenomeni patologici avvertiti, ma in relazione alla comune
conoscenza scientifica che in merito a tale patologia era
ragionevole richiedere in una data epoca ai soggetti a cui si è rivolta (o
avrebbe dovuto rivolgersi) la persona lesa.

3.4. I principi, quindi, che
vanno affermati, sono i seguenti:

" Anche allorché sia
proposta domanda di condanna generica al risarcimento del danno, da liquidarsi
in separato giudizio, il convenuto, che assuma che il proprio debito sia in
tutto o in parte prescritto, ha l’onere di sollevare la relativa eccezione in
tale giudizio nei termini di legge a pena di decadenza e non nel successivo
giudizio di liquidazione del danno; il giudice di primo grado ha l’obbligo di
decidere su tale eccezione, che integra una preliminare di merito, per cui l’eventuale sussistenza della prescrizione fa venir
meno ogni interesse della parte all’accertamento dell’esistenza del diritto
azionato" "Il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del
danno di chi assume di aver contratto per contagio una malattia per fatto
doloso o colposo di un terzo decorre, a norma degli artt. 2935 e 2947, c. l,c.c, non dal giorno in cui il terzo determina la
modificazione che produce il danno altrui o dal momento in cui la malattia si
manifesta all’esterno, ma dal momento in cui viene percepita o può essere
percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo
di un terzo, usando l’ordinaria oggettiva diligenza e tenuto conto della
diffusione delle conoscenze scientifiche".

4. Il problema che si pone, anche
con riferimento al giudizio in esame, è la valenza del responso delle
Commissioni mediche ospedaliere, istituite presso ospedali militari, di cui
all’art. 4 1.210/1992, ai fini della decorrenza della prescrizione.

In linea generale non può
ritenersi che solo con la comunicazione di tale responso inizi a decorrere la prescrizione,
come pure sostenuto da parte della giurisprudenza di merito. Tale tesi non pare
convincente, per diversi ordini di motivi: perché offre effettivamente il
destro al creditore per dilatare a suo piacere il corso della prescrizione;
perché potrebbe portare ad affermare che il dies a quo inizi anche a decorrere
a causa già iniziata, negando l’effetto interruttivo connaturato alla
proposizione dell’azione; perché rischia di enfatizzare il ruolo della
consulenza medico-legale (effettuata peraltro in
riferimento al diverso procedimento di liquidazione dell’indennizzo). Inoltre è
illogico ritenere che il decorso del termine di prescrizione possa iniziare
dopo che la parte si è comunque attivata per chiedere un indennizzo per lo
stesso fatto lesivo, pur nella diversità tra diritto all’indennizzo e diritto
al pieno risarcimento di tutte le conseguenze del fatto danno so.

Tenuto conto che l’indennizzo è dovuto solo in presenza di danni irreversibili da
vaccinazioni, emotrasfusioni o somministrazioni di emoderivati, appare
ragionevole ipotizzare che dal momento della proposizione della domanda
amministrativa la vittima del contagio deve comunque aver avuto una sufficiente
percezione sia della malattia, sia del tipo di malattia che delle possibili
conseguenze dannose, percezione la cui esattezza viene solo confermata con la
certificazione emessa dalle commissioni mediche. 5. Ne consegue che nella
fattispecie sono fondate le censure relative al mancato accertamento della
prescrizione in relazione a ciascuna posizione soggettiva anche in sede di
giudizio relativo solo a domanda di condanna generica, alla ritenuta decorrenza
decennale della prescrizione del diritto al risarcimento del danno perché il
fatto costituirebbe un’ipotesi di reato di epidemia colposa o lesioni personali
plurime, (mentre la prescrizione è decennale in relazione a domande rela tive a
risarcimento del danno da decesso, proposte da congiunti iure proprio, in cui è
ipotizzabile un omicidio colposo); è infondata la censura, per violazione di norme
di diritto, relativamente al dies a quo della decorrenza della prescrizione,
avendo il giudice di merito fatto decorrere la stessa dalla data in cui il
danneggiato ha percepito (o avrebbe dovuto percepire) non solo la malattia, ma
anche che essa era conseguenza della trasfusione con sangue infetto; è fondata
la censura di vizio motivazionale della sentenza nella parte in cui ha ritenuto
che il danneggiato avesse avuto conoscenza del danno, anche sotto il profilo
eziologico, ai fini dell’exordium praescriptionis solo con il responso della commissione medico ospedaliera. 6.Con
il secondo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa
applicazione degli artt. 2043, 2056 ce, nonché l’omessa, insufficiente e
contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia a nonna
dell’art. 360 n. 3 e 5 c.p.c. Il Ministero lamenta la violazione di legge in
ordine all’accertamento del nesso causale e dell’elemento psicologico della
colpa in capo al Ministero.

In particolare il ricorrente
assume che i virus in questione e le tecniche di rilevazione sarebbero stati
individuati solo nel corso degli anni ’80, per cui,
precedentemente a tale data, non poteva ritenersi sussistente, né un nesso
causale tra la pretesa attività omissiva del Ministero e l’evento del contagio
da emotrasfusione o da assunzione di emoderivati né l’elemento soggettivo; che
è errato e non motivato l’assunto apodittico secondo il quale il Ministero già
dagli anni 70 sarebbe stato in grado di conoscere ed individuare tali virus;
che è errato l’assunto secondo cui, divenuto conoscibile il primo virus
(epatite B), il Ministero sarebbe tenuto al risarcimento anche per gli altri
due (HIV ed epatite C), anche se ancora non conosciuti alla data dell’emotrasfusione
o dell’assunzione degli emoderivati, sulla base del principio, affermato dalla
sentenza impugnata, che in tema di responsabilità extracontrattuale si risponde
anche dei danni non prevedibili.

Infine il Ministero, sulla base
della normativa all’epoca vigente, nega che su di esso
gravasse un obbligo di vigilanza e controllo tale da renderlo responsabile dei
singoli casi di contagio, avendo egli solo un dovere di vigilanza complessiva e
non specifica sul singolo caso.

7.1. Il motivo è infondato.

Va anzitutto esaminata la
normativa che regolava l’attività del Ministero in tema di emotrasfusione e di
emoderivati all’epoca dei fatti.

La L. n. 592/1967, (art. 1) attribuisce al Ministero
le direttive tecniche per l’organizzazione, il funzionamento ed il
coordinamento dei servizi inerenti alla raccolta, preparazione, conservazione,
e distribuzione del sangue umano per uso trasfusionale, alla preparazione dei
suoi derivati e ne esercita la vigilanza, nonché (art. 21) il compito di
autorizzare l’importazione e l’esportazione di sangue umano e dei suoi derivati
per uso terapeutico. Il d.p.r. n. 1256/1971 contiene norme di dettaglio che
confermano nel Ministero la funzione di controllo e vigilanza in materia (artt.
2,3, 103, 112).

La legge n. 519/1973 attribuisce
all’Istituto superiore di sanità compiti attivi a tutela della salute pubblica.

La legge 23.12.1978, n. 833, che
ha istituito il Servizio sanitario Nazionale conserva al Ministero della
Sanità, oltre al ruolo primario nella programmazione del piano sanitario
nazionale ed a compiti di indirizzo e coordinamento delle attività
amministrative regionali delegate in materia sanitaria, importanti funzioni in
materia di produzione, sperimentazione e commercio dei prodotti farmaceutici e
degli emoderivati (art. 6 lett. b,c), mentre l’art. 4,
n. 6, conferma che la raccolta, il frazionamento e la distribuzione del sangue
umano costituiscono materia di interesse nazionale.

Il d.l.n. 443 del 1987 stabilisce
la sottoposizione dei medicinali alla ed. "farmacosorveglianza" da
parte del Ministero della Sanità, che può stabilire le modalità di esecuzione
del monitoraggio sui farmaci a rischio ed emettere provvedimenti cautelari sui
prodotti in commercio.

Ne consegue che, anche prima
dell’entrata in vigore della legge 4.5.1990, n. 107, contenente la disciplina
per le attività trasfusionali e la produzione di emoderivati, deve ritenersi
che sussistesse in materia, sulla base della
legislazione vigente, un obbligo di controllo, direttive e vigilanza in materia
di sangue umano da parte del Ministero della sanità, anche strumentale alla
funzione di programmazione e coordinamento in materia sanitaria. L’omissione da
parte del Ministero di attività funzionali alla realizzazione dello scopo per il quale l’ordinamento attribuisce il potere ( qui
concernente la tutela della salute pubblica) lo espone a responsabilità
extracontrattuale, quando, come nella fattispecie, dalla violazione del vincolo
interno costituito dal dovere di vigilanza nell’interesse pubblico, il quale è
strumentale ed accessorio a quel potere, siano derivate violazioni dei diritti
soggettivi dei terzi.

7.2.Inquadrata,
quindi, la responsabilità del Ministero nell’ambito della responsabilità
aquiliana ex art. 2043 ce, da omessa vigilanza, va osservato che, come statuito
da Corte Cost. 22.6.2000 n. 226 e 18.4 1996 n. 118, la menomazione della salute
derivante da trattamenti sanitari può determinare le seguenti situazioni: a) il
diritto al risarcimento pieno del danno, secondo la previsione dell’art. 2043
cod. civ., in caso di comportamenti colpevoli; b) il diritto a un equo
indennizzo, discendente dall’art. 32 della Costituzione in collegamento con
l’art. 2, ove il danno, non derivante da fatto illecito, sia conseguenza
dell’adempimento di un obbligo legale; e) il diritto, ove ne sussistano i
presupposti a norma degli artt. 38 e 2 della Costituzione, a misure di sostegno
assistenziale disposte dal legislatore, nell’ambito dell’esercizio
costituzionalmente legittimo dei suoi poteri discrezionali.

In quest’ultima ipotesi si
inquadra la disciplina apprestata dalla legge n. 210 del 1992, che opera su un
piano diverso da quello in cui si colloca quella civilistica in tema di
risarcimento del danno, compreso il cosiddetto danno biologico.

Per quanto qui interessa, al fine
di evidenziare la distanza che separa il risarcimento del danno dall’indennità
prevista dalla legge predetta, basta rilevare che la responsabilità civile
presuppone un rapporto tra fatto illecito e danno risarcibile e configura
quest’ultimo, quanto alla sua entità, in relazione alle singole fattispecie
concrete, valutabili caso per caso dal giudice, mentre il diritto all’indennità
sorge per il sol fatto del danno irreversibile derivante da infezione
post-trafusionale, in una misura prefissata dalla legge. Ciò comporta che vada
condiviso l’orientamento favorevole della più avvertita dottrina al concorso
tra il diritto all’equo indennizzo di cui alla 1. n.
210 del 1992 ed il diritto al risarcimento del danno ex art. 2043 ce, per cui
nel caso in cui ricorrano gli estremi di una responsabilità civile per colpa la
presenza della legge n. 210/1992, come modificata dalla 1. n.
238/1997, non ha escluso in alcun modo che il privato possa chiedere e che il
giudice possa procedere alla ricerca della responsabilità aquiliana, senza che
esista automatismo tra le due figure (mentre non è oggetto di questo ricorso il
diverso problema se si tratti di diritti alternativi, ovvero cumulabili ed – in
caso positivo- in quali termini).

8.1.Inquadrata,
quindi, la responsabilità del Ministero nell’ambito della responsabilità
aquiliana ex art. 2043 ce, da omessa vigilanza, va ora esaminata la questione
del nesso causale in siffatto tipo di responsabilità.

Osserva preliminarmente questa
Corte che l’insufficienza del tradizionale recepimento in sede civile
dell’elaborazione penalistica in tema di nesso causale è emersa con chiarezza
nelle concezioni moderne della responsabilità civile, che costruiscono la
struttura della responsabilità aquiliana intorno al danno ingiusto, anziché al
"fatto illecito", divenuto "fatto dannoso".

In effetti, mentre ai fini della
sanzione penale si imputa al reo il fatto-reato (il cui elemento materiale è
appunto costituito da condotta, nesso causale, ed evento naturalistico o
giuridico) , ai fini della responsabilità civile ciò
che si imputa è il danno e non il fatto in quanto tale.

E tuttavia un "fatto" è
pur sempre necessario perché la responsabilità sorga, giacché l’imputazione del
danno presuppone l’esistenza di una delle fattispecie normative di cui agli
artt. 2043 e segg. ce, le quali tutte si risolvono nella descrizione di un nesso,
che leghi storicamente un evento o ad una condotta o a cose o a fatti di altra
natura, che si trovino in una particolare relazione con il soggetto chiamato a
rispondere.

Il "danno" rileva così
sotto due profili diversi: come evento lesivo e come insieme di conseguenze
risarcibili, retto il primo dalla causalità materiale ed il secondo da quella
giuridica.

Il danno oggetto
dell’obbligazione risarcitoria aquiliana è quindi esclusivamente il danno
conseguenza del fatto lesivo ( di cui è un elemento l’evento lesivo).

Se sussiste solo il fatto lesivo,
ma non vi è un danno-conseguenza, non vi è l’obbligazione risarcitoria.

8.2.Proprio
in conseguenza di ciò si è consolidata nella cultura giuridica contemporanea
l’idea, sviluppata soprattutto in tema di nesso causale, che esistono due
momenti diversi del giudizio aquiliano: la costruzione del fatto idoneo a
fondare la responsabilità (per la quale la problematica causale, detta
causalità materiale o di fatto, presenta rilevanti analogie con quella penale,
artt. 40 e 41 c.p., ed il danno rileva solo come
evento lesivo) e la determinazione dell’intero danno cagionato, che costituisce
l’oggetto dell’obbligazione risarcitoria.

A questo secondo momento va
riferita la regola dell’art. 1223 ce.(richiamato dall’art. 2056 ce), per il
quale il risarcimento deve comprendere le perdite "che siano conseguenza
immediata e diretta" del fatto lesivo (ed. causalità giuridica), per cui esattamente si è dubitato che la norma attenga al
nesso causale e non piuttosto alla determinazione del quantum del risarcimento,
selezionando le conseguenze dannose risarcibili. Secondo l’opinione
assolutamente prevalente, occorre distinguere nettamente, da un lato, il nesso
che deve sussistere tra comportamento ed evento perche’ possa
configurarsi, a monte, una responsabilità’ "stmtturale"
(Haftungsbegrùndende Kausalitàt) e, dall’altro, il nesso che, collegando
l’evento al danno, consente l’individuazione delle singole conseguenze dannose,
con la precipua funzione di delimitare, a valle, i confini di una (già’
accertata) responsabilità’ risarcitoria (Haftungsausfullende Kausalitàt).

Secondo la dottrina e la
giurisprudenza prevalente, tale distinzione è ravvisabile, rispettivamente, nel
primo e nel secondo comma dell’art. 1227 ce: il primo comma attiene al
contributo eziologico del debitore nella produzione dell’evento dannoso, il
secondo comma attiene al rapporto evento- danno conseguenza, rendendo
irrisarcibili alcuni danni. Nel macrosistema civilistico l’unico profilo
dedicato al nesso eziologico, è previsto dall’art. 2043 ce, dove l’imputaizione
del "fatto doloso o colposo" è addebitata a chi "cagiona ad
altri un danno ingiusto", o, come afferma l’art. 1382 Code Napoleon
"qui cause au autrui un dommage".

Un’analoga disposizione, sul danno
ingiusto e non sul danno da risarcire, non è richiesta in tema di
responsabilità ed. contrattuale o da inadempimento, perché in tal caso il
soggetto responsabile è, per lo più, il contraente rimasto inadempiente, o il
debitore che non ha effettuato la prestazione dovuta. E questo è uno dei motivi
per cui la stessa giurisprudenza di legittimità
partendo dall’ovvio presupposto di non dover identificare il soggetto
responsabile del fatto dannoso, si è limitata a dettare una serie di soluzioni
pratiche, caso per caso, senza dover optare per una precisa scelta di campo,
tesa a coniugare il "risarcimento del danno", cui è dedicato l’art.
1223 ce, con il rapporto di causalità. Solo in alcune ipotesi particolari, in
cui l’inadempimento dell’obbligazione era imputabile al fatto illecito del
terzo, il problema della causalità è stato affrontato dalla giurisprudenza, sia
sotto il profilo del rapporto tra comportamento ed evento dannoso sia sotto
quello tra evento dannoso e conseguenze risarcibili.

Il sistema di valutazione e
determinazione dei danni, siano essi contrattuali o extracontrattuali, in virtù
del rinvio operato dall’art. 2056 ce, è composto dagli
artt. 1223, 1226 e 1227 ce e, in tema di responsabilità da inadempimento, anche
dalla disposizione dell’art. 1225 ce A queste norme si deve aggiungere il
principio ricavabile dall’art. 1221 ce che si fonda sul giudizio ipotetico di
differenza tra la situazione quale sarebbe stata senza il verificarsi del fatto
dannoso e quella effettivamente avvenuta.

8.3. Ai fini della causalità
materiale nell’ambito della responsabilità aquiliana la giurisprudenza e la
dottrina prevalenti, in applicazione dei principi penalistici, di cui agli
artt. 40 e 41 c.p.,ritengono che un evento è da
considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il
primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della
condicio sine qua non).

Il rigore del principio
dell’equivalenza delle cause , posto dall’art. 41 c.p,
in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più
azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale,
trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dal
secondo comma dell’art. 41 c.p., in base al quale l’evento dannoso deve essere
attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se
questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause
preesistenti,ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie
causale già in atto (Cass. 19.12.2006, n. 27168; Cass. 8.9.2006, n. 19297;
Cass. 10.3.2006, n. 5254; Cass. 15.1.1996, n. 268).

Nel contempo non è sufficiente
tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante,
dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a
quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l’evento causante non
appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino
come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c. d. causalità adeguata o quella similare della ed. regolarità
causale ( ex multis: Cass. 1.3.2007; n. 4791; Cass. 6.7.2006, n. 15384; Cass.
27.9.2006, n. 21020; Cass. 3.12.2002, n. 17152; Cass. 10.5.2000 n. 5962).

8.4. Quindi, per la teoria della
regolarità causale, ampiamente utilizzata anche negli ordinamenti di common
law, ciascuno è responsabile soltanto delle conseguenze della sua condotta,
attiva o omissiva, che appaiono sufficientemente prevedibili al momento nel
quale ha agito, escludendosi in tal modo la responsabilità per tutte le
conseguenze assolutamente atipiche o imprevedibili. Sulle modalità con le quali
si deve compiere il giudizio di adeguatezza, se cioè con valutazione ex ante,
al momento della condotta, o ex post, al momento del verificarsi delle conseguenze
dannose, si è interrogata la dottrina tedesca ben più di quella italiana,
giungendo alle prevalenti conclusioni secondo le quali la valutazione della
prevedibilità obiettiva deve compiersi ex ante, nel momento in cui la condotta
è stata posta in essere, operandosi una "prognosi postuma", nel senso
che si deve accertare se, al momento in cui è avvenuta l’azione, era del tutto
imprevedibile che ne sarebbe potu ta discendere una data conseguenza. La teoria
della regolarità causale, pur essendo la più seguita dalla giurisprudenza, sia
civile che penale, non è andata esente da critiche da parte della dottrina
italiana, che non ha mancato di sottolineare che il giudizio di causalità
adeguata, ove venisse compiuto con valutazione ex ante
verrebbe a coincidere con il giudizio di accertamento della sussistenza
dell’elemento soggettivo. Ma la censura non pare condivisibile, in quanto tale
prevedibilità obbiettiva va esaminata in astratto e non in concreto ed il metro
di valutazione da adottare non è quello della conoscenza dell’uomo medio ma
delle migliori conoscenze scientifiche del momento (poiché non si tratta di
accertare l’elemento soggettivo, ma il nesso causale).

In altri termini ciò che rileva è
che l’evento sia prevedibile non da parte dell’agente, ma (per così dire) da
parte delle regole statistiche e/o scientifiche, dalla quale prevedibilità
discende da parte delle stesse un giudizio di non improbabilità dell’evento. Il
principio della regolarità causale diviene la misura della relazione
probabilistica in astratto (e svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra
comportamento ed evento dannoso (nesso causale) da ricostruirsi anche sulla
base dello scopo della norma violata, mentre tutto ciò che attiene alla sfera
dei doveri di avvedutezza comportamentale andrà più propriamente ad iscriversi
entro l’elemento soggettivo (la colpevolezza) dell’illecito. Inoltre se
l’accertamento della prevedibilità dell’evento, ai fini della regolarità
causale fosse effettuato ex post, il nesso causale sarebbe rimesso alla variabile
del tempo intercorrente tra il fatto dannoso ed il suo accertamento, nel senso
che quanto maggiore è quel tempo tanto maggiore è la possibilità di sviluppo
delle conoscenze scientifiche e quindi dell’accertamento positivo del nesso
causale ( con la conseguenza illogica che della lunghezza del processo,
segnatamente nelle fattispecie a responsabilità oggettiva, potrebbe giovarsi
l’attore, sul quale grava l’onere della prova del nesso causale).

8.5.Nell’imputazione
per omissione colposa il giudizio causale assume come termine iniziale la
condotta omissiva del comportamento dovuto (Cass. n. 20328 del 2006; Cass. n.
21894 del 2004; Cass. n. 6516 del 2004; Cass. 22/10/2003, n.15789) : rilievo che si traduce a volte nell’affermazione
dell’esigenza, per l’imputazione della responsabilità, che il danno sia una
concretizzazione del rischio, che la norma di condotta violata tendeva a
prevenire. E’ questa l’ipotesi per la quale in parte della dottrina si parla
anche di mancanza di nesso causale di antigiuridicità e che effettivamente non
sembra estranea ad una corretta impostazione del problema causale, anche se nei
soli limiti di supporto argomentativo ed orientativo nell’applicazione della
regola di cui all’art. 40, c. 2, c.p.. Poiché
l’omissione di un certo comportamento, rileva, quale condizione determinativa
del processo causale dell’evento dannoso, soltanto quando si tratti di
omissione di un comportamento imposto da una norma giuridica specifica (omissione
specifica), ovvero, in relazione al configurarsi della posizione del soggetto
cui si addebita l’omissione, siccome implicante l’esistenza a suo carico di
particolari obblighi di prevenzione dell’evento poi verificatosi e, quindi, di
un generico dovere di intervento (omissione generica) in funzione
dell’impedimento di quell’evento, il giudizio relativo alla sussistenza del
nesso causale non può limitarsi alla mera valutazione della materialità
fattuale, bensì postula la preventiva individuazione dell’obbligo specifico o
generico di tenere la condotta omessa in capo al soggetto. L’individuazione di
tale obbligo si connota come preliminare per l’apprezzamento di una condotta
omissiva sul piano della causalità, nel senso che, se prima non si individua, in
relazione al comportamento che non risulti tenuto, il dovere generico o
specifico che lo imponeva, non è possibile apprezzare l’omissione del
comportamento sul piano causale.

La causalità nell’omissione non
può essere di ordine strettamente materiale, poiché ex nihilo nihil flt.

Anche coloro (corrente
minoritaria) che sostengono la causalità materiale nell’omissione e non la
causalità normativa (basata sull’equiparazione disposta dall’art. 40 c.p.)
fanno coincidere l’omissione con una condizione negativa perché l’evento
potesse realizzarsi. La causalità è tuttavia accertabile attraverso un giudizio
ipotetico: l’azione ipotizzata, ma omessa, avrebbe
impedito l’evento?

In altri termini non può
riconoscersi la responsabilità per omissione quando il comportamento omesso,
ove anche fosse stato tenuto, non avrebbe comunque impedito
l’evento prospettato: la responsabilità non sorge non perché non vi sia stato
un comportamento antigiuridico (l’omissione di un comportamento dovuto è di per
sé un comportamento antigiuridico), ma perchè quell’omissione non è causa del
danno lamentato.

Il giudice pertanto è tenuto ad
accertare se l’evento sia ricollegabile all’omissione
(causalità omissiva) nel senso che esso non si sarebbe verificato se (causalità
ipotetica) l’agente avesse posto in essere la condotta doverosa impostagli, con
esclusione di fattori alternativi. L’accertamento del rapporto di causalità
ipotetica passa attraverso l’enunciato "controfattuale" che pone al
posto dell’omissione il comportamento alternativo dovuto, onde verificare se la
condotta doverosa avrebbe evitato il danno lamentato
dal danneggiato.

8.6. Si deve quindi ritenere che
i principi generali che regolano la causalità di fatto sono anche in materia
civile quelli delineati dagli artt. 40 e 41 c.p e dalla "regolarità
causale", in assenza di altre norme nell’ordinamento in tema di nesso
eziologico ed integrando essi principi di tipo logico e conformi a massime di
esperienza.

Tanto vale certamente allorché
all’inizio della catena causale è posta una condotta omissiva o commissiva,
secondo la norma generale di cui all’art. 2043 c.c..

Né può costituire valida
obbiezione la pur esatta considerazione delle profonde differenze morfologiche
e funzionali tra accertamento dell’illecito civile ed accertamento
dell’illecito penale, essendo il primo fondato sull’atipicità dell’illecito,
essendo possibili ipotesi di responsabilità oggettiva ed essendo diverso il
sistema probatorio.

La dottrina, che sostiene tale
linea interpretativa, finisce per giungere alla conclusione che non può
definirsi in modo unitario il nesso di causalità materiale in civile, potendo
avere tante sfaccettature quante l’atipicità dell’illecito.

Altra parte della dottrina, sulla
base delle stesse considerazioni, ha finito per dissolvere ogni questione sulla
causalità materiale in una questione di causalità giuridica (in diversa
accezione da quella sopra esposta, con riferimento all’art. 1223 ce), per cui un certo danno è addebitato ad un soggetto chiamato
a risponderne ed il legame "causale" tra responsabile e danno è tutto
normativo.

8.7.Ritengono
queste S.U. che le suddette considerazioni non sono decisive ai fini di un
radicale mutamento di indirizzo, dovendosi solo specificare che l’applicazione
dei principi generali di cui agli artt. 40 e 41 cp.,
temperati dalla " regolarità causale", ai fini della ricostruzione
del nesso eziologico va adeguata alle peculiarità delle singole fattispecie
normative di responsabilità civile.

Il diverso regime probatorio
attiene alla fase di accertamento giudiziale, che è successiva al verificarsi
ontologico del fatto dannoso e che può anche mancare. Di questo si vedrà più
ampiamente in seguito.

E’ vero che la responsabilità
civile orbita intorno alla figura del danneggiato, mentre quella penale intorno
alla figura dell’autore del reato, ma come è stato acutamente rilevato, un
responsabile è pur sempre necessario, se non si vuole trasformare la
responsabilità civile in un’assicurazione contro i danni, peraltro in assenza
di premio.

L’atipicità dell’illecito attiene
all’evento dannoso, ma non al rapporto eziologico tra lo stesso e l’elemento
che se ne assume generatore, individuato sulla base del criterio di
imputazione.

E’ vero, altresì, che,
contrariamente alla responsabilità penale, il criterio di imputazione della
responsabilità civile non sempre è una condotta colpevole; ciò comporta solo
una varietà di tali criteri di imputazione, ma da una parte non elimina la
necessità del nesso di causalità di fatto e dall’altra non modifica le regole giuridico-logiche che presiedono all’esistenza del
rapporto eziologico.

Il problema si sposta sul
criterio di imputazione e sulle figure (tipiche) di responsabilità oggettiva.
E’ esatto che tale criterio di imputazione è segnato spesso da un’allocazione
del costo del danno a carico di un soggetto che non necessariamente è autore di
una condotta colpevole (come avviene generalmente e come è previsto dalla
clausola generale di cui all’art. 2043 ce, secondo il principio classico, per cui non vi è responsabilità senza colpa: "ohne
schuld keine haftung), ma ha una determinata esposizione a rischio ovvero
costituisce per l’ordinamento un soggetto più idoneo a sopportare il costo del
danno (dando attuazione, anche sul terreno dell’illecito, al principio di
solidarietà accolto dalla nostra Costituzione) ovvero è il soggetto che aveva la
possibilità della cost-benefit analysis, per cui deve sopportarne la
responsabilità, per essersi trovato, prima del suo verificarsi, nella
situazione più adeguata per evitarlo nel modo più conveniente, sicché il
verificarsi del danno discende da un’opzione per il medesimo, assunta in
alternativa alla decisione contraria.

Sennonché il criterio di
imputazione nella fattispecie ( con le ragioni che lo ispirano) serve solo ad
indicare quale è la sequenza causale da esaminare e può anche costituire un
supporto argomentativo ed orientativo nell’applicazione delle regole proprie
del nesso eziologico, ma non vale a costituire autonomi principi della
causalità. Sostenere il contrario implica riportare sul piano della causalità
elementi che gli sono estranei e che riguardano il criterio di imputazione
della responsabilità o l’ingiustizia del danno.

8.8.Un
rapporto causale concepito allo stato puro tende all’infinito. La
responsabilità oggettiva non può essere pura assenza o irrilevanza dei criteri
soggettivi di imputazione, bensì sostituzione di questi con altri di natura
oggettiva, i quali svolgono nei confronti del rapporto di causalità la medesima
funzione che da sempre è propria dei criteri soggettivi di imputazione nei
fatti illeciti. Mentre nella responsabilità per colpa quest’ultima si asside su
un nesso causale tra evento e condotta ai fini della qualificazione di
quest’ultima in funzione della responsabilità, nella responsabilità oggettiva
sono i criteri di imputazione ad individuare il segmento della sequenza
causale, tendenzialmente infinita, alla quale fare riferimento ai fini della
responsabilità.

Anzi, a ben vedere, sono decisivi
nella sfera giuridica "da fare responsabile". Ciò perché nella
fattispecie di responsabilità oggettiva il nesso causale non si identifica nel
rapporto eziologico tra evento e condotta di un agente candidato alla
responsabilità, bensì o si riferisce alla condotta di altri o addirittura non
coincide con una condotta, bensì con una concatenazione tra fatti di altra
natura, inidonea a risolvere la questione della responsabilità. Tale questione
la norma di volta in volta risolve mediante qualcosa di ulteriore, che è
costituito da una qualificazione, espressiva appunto del criterio di
imputazione. Esso in questo caso non si limita a stabilire quale segmento di
una certa catena causale debba ritenersi rilevante ai fini della
responsabilità, ma addirittura serve ad individuare la catena causale alla
quale fare riferimento e, attraverso tale riferimento, la sfera soggettiva
sulla quale deve gravare il costo del danno.

8.9.Sennonchè
detto ciò, ai fini dell’individuazione del soggetto chiamato alla
responsabilità dal criterio di imputazione, un nesso causale è pur sempre
necessario tra l’evento dannoso e, di volta in volta, la condotta del soggetto
responsabile (in ipotesi di responsabilità per colpa) o la condotta di altri
(ad es. art. 2049 ce.) o i fatti di altra natura considerati dalla specifica
norma (ad es. artt. 2051, 2052, 2054, c. 4, ce), posti all’inizio della serie
causale.

Rimane il problema di quando e
come rilevi giuridicamente tale "concatenazione causale" tra la
condotta di altri e l’evento ovvero tra il fatto di altra natura e l’evento (
di cui debba rispondere il soggetto gravato della responsabilità oggettiva).

In assenza di norme civili che
specificamente regolino il rapporto causale, ancora
occorre far riferimento ai principi generali di cui agli artt. 40 e 41 c.p., con la particolarità che in questo caso il nesso
eziologico andrà valutato non tra la condotta del soggetto chiamato a
rispondere, ma tra l’elemento individuato dal criterio di imputazione e
l’evento dannoso. In altri termini, mentre nella responsabilità penale il
rapporto eziologico ha sempre come punto di riferimento iniziale la condotta
dell’agente, in tema di responsabilità civile extracontrattuale il punto di
partenza del segmento causale rilevante può essere anche altro, se in questi
termini la norma fissa il criterio di imputazione, ma le regole per ritenere
sussistente, concorrente, insussistente o interrotto il nesso causale tra tale
elemento e l’evento dannoso, in assenza di altre disposizioni normative,
rimangono quelle fissate dagli artt. 40 e 41 c.p.. Il
rischio o il pericolo, considerati eventualmente dal la ratio dello specifico
paradigma normativo ai fini dell’allocazione del costo del danno, possono
sorreggere la motivazione che porta ad accertare la causalità di fatto, ma
restano categorie di mero supporto che da sole non valgono a costruire
autonomamente una teoria della causalità nell’illecito civile.

8.10. Essendo questi i principi
che regolano il procedimento logico-giuridico ai fini della ricostruzione del
nesso causale, ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e quello
civile è la regola probatoria, in quanto nel primo vige la regola della prova
"oltre il ragionevole dubbio" (cfr. Cass. Pen. S.U.
11 settembre 2002, n. 30328, Franzese), mentre nel secondo vige la regola della
preponderanza dell’evidenza o "del più probabile che non", stante la
diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e
l’equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti
contendenti, come rilevato da attenta dottrina che ha esaminato l’identità di
tali standars delle prove in tutti gli ordinamenti occidentali, con la predetta
differenza tra processo civile e penale (in questo senso vedansi: la
recentissima Cass. 16.10.2007, n. 21619; Cass. 18.4.2007, n. 9238; Cass.
5.9.2006, n. 19047; Cass. 4.3.2004, n. 4400; Cass. 21.1.2000 n. 632).
Anche la Cor
te di Giustizia CE è indirizzata ad accettare che la causalità non possa che
poggiarsi su logiche di tipo probabilistico (CGCE, 13/07/2006, n.295, ha
ritenuto sussistere la violazione delle norme sulla concorrenza in danno del
consumatore se "appaia sufficientemente probabile" che l’intesa tra
compagnie assicurative possa avere un’influenza sulla vendita delle polizze
della detta assicurazione; Corte giustizia CE, 15/02/2005, n.12, sempre in tema
di tutela della concorrenza, ha ritenuto che "occorre postulare le varie
concatenazioni causa-effetto, al fine di accogliere quelle maggiormente
probabili").

Detto standard di "certezza
probabilistica" in materia civile non può essere ancorato esclusivamente
alla determinazione quantitativa-statistica delle frequenze di classi di eventi
(ed. probabilità quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare o
essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza
all’ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri
possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (ed.
probabilità logica o baconiana). Nello schema generale della probabilità come
relazione logica va determinata l’attendibilità dell’ipotesi sulla base dei
relativi elementi di conferma (ed. evidence and inference nei sistemi
anglosassoni).

8.11. Le considerazioni sopra
esposte, maturate in relazione alla problematica del nesso di causalità,
portano ad enunciare il seguente principio di diritto per la decisione del caso
concreto, attinente alla responsabilità del Ministero della Sanità (oggi della
Salute) da omessa vigilanza, correttamente applicato dalla sentenza impugnata:

"Premesso che sul Ministero
gravava un obbligo di controllo, direttive e vigilanza in materia di impiego di
sangue umano per uso terapeutico (emotrasfusioni o preparazione di emoderivati)
anche strumentale alle funzioni di programmazione e coordinamento in materia
sanitaria, affinchè fosse utilizzato sangue non infetto e proveniente da
donatori conformi agli standars di esclusione di rischi, il giudice, accertata
l’omissione di tali attività, accertata, altresì, con riferimento all’epoca di
produzione del preparato, la conoscenza oggettiva ai più alti livelli
scientifici della possibile veicolazione di virus attraverso
sangue infetto ed accertata – infine – l’esistenza di una patologia da
virus HIV o HBV o HCV in soggetto emotrasfuso o assuntore di emoderivati, può
ritenere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissione sia stata
causa dell’insorgenza della malattia, e che, per converso, la condotta doverosa
del Ministero, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito la versificazione
dell’evento".

9.1. Dal principio sopra esposto
in tema di nesso causale da comportamento omissivo, emerge anche il criterio
per la delimitazione temporale della responsabilità del Ministero. Questa
Corte, con sentenza 31/05/2005, n.11609, osservava che, finché non erano
conosciuti dalla scienza medica mondiale, i virus della HIV, HBC ed HCV,
proprio perché l’evento infettivo da detti virus era già astrattamente
inverosimile, in quanto addirittura anche astrattamente sconosciuto, mancava il
nesso causale tra la condotta omissiva del Ministero e l’evento lesivo, in
quanto all’interno delle serie causali non poteva darsi rilievo che a quelle
soltanto che, nel momento in cui si produsse l’omissione causante e non
successivamente, non apparivano del tutte
inverosimili, tenuto conto della norma comportamentale o giuridica, che
imponeva l’attività omessa. La corte di legittimità, quindi, riteneva esente da
vizi logici la sentenza della Corte di appello, che aveva ritenuto di
delimitare la respon sabilità del Ministero a decorrere dal 1978 per l’HBC
(epatite B), dal 1985 per l’HIV e dal 1988 per l’HCV (epatite C), poiché solo
in tali rispettive date erano stati conosciuti dalla scienza mondiale
rispettivamente i virus ed i tests di identificazione.

9.2. Ritengono, invece, queste
S.U. (in conformità a quanto ritenuto da una parte della giurisprudenza di
merito e della dottrina) che non sussistono tre eventi lesivi, come se si
trattasse di tre serie causali autonome ed indipendenti, ma di un unico evento
lesivo, cioè la lesione dell’integrità fìsica (essenzialmente del fegato), per cui unico è il nesso causale: trasfusione con sangue
infetto – contagio infettivo – lesione dell’integrità. Pertanto già a partire
dalla data di conoscenza dell’epatite B (la cui individuazione, costituendo un
accertamento fattuale, rientra nell’esclusiva competenza del giudice di merito)
sussiste la responsabilità del Ministero anche per il contagio degli altri due
virus, che non costituiscono eventi autonomi e diversi, ma solo forme di
manifestazioni patogene dello stesso evento lesivo dell’integrità fisica da
virus veicolati dal sangue infetto, che il Ministero non aveva controllato, come
pure era obbligato per legge.

Di fronte ad obblighi di
prevenzione, programmazione, vigilanza e controllo imposti dalla legge, deve
inoltre sottolinearsi che si arresta la discrezionalità amministrativa, ove
invocata per giustificare le scelte operate nel peculiare settore della
plasmaferesi. Il dovere del Ministero di vigilare attentamente sulla
preparazione ed utilizzazione del sangue e degli emoderivati postula un dovere
particolarmente pregnante di diligenza nell’impiego delle misure necessarie a verificarne
la sicurezza, che comprende il dovere di adoperarsi per evitare o ridurre un
rischio che è antico quanto la necessità della trasfusione.

9.3.E’
infondata anche la censura relativa alla mancato accertamento dell’elemento
psicologico colposo del Ministero. Avendo ritenuto il giudice di merito che il
Ministero aveva l’obbligo di controllare che il sangue utilizzato per le
trasfusioni o per gli emoderivati fosse esente da virus e che i donatori non
presentassero alterazioni delle transaminasi, l’omissione di tale condotta,
integrando la violazione di un obbligo specifico, integra la colpa.

10.Con
il terzo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa
applicazione degli artt. 2043, 2059 ce, nonché l’omessa, insufficiente e
contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, ai
sensi dell’art. 360 n. 3 e 5 c.p.c. Assume il ricorrente che erratamente la
sentenza impugnata ha riconosciuto agli attori il danno morale, mentre per il
combinato disposto degli artt. 2059 ce e 185 cp. sarebbe stato necessario
individuare una persona fìsica che potesse rispondere del reato e che la stessa
fosse legata al Ministero da rapporto di dipendenza.

11. Il motivo è infondato.

Anzitutto va osservato che
l’azione civile per il risarcimento del danno, nei confronti di chi è tenuto a
rispondere dell’operato dell’autore del fatto che integra un’ipotesi di reato,
è ammessa – tanto per i danni patrimoniali che per quelli non patrimoniali –
anche quando rimanga ignoto l’autore del fatto che integra un’ipotesi di reato,
sempre che sia certa l’appartenenza di quest’ultimo ad una cerchia di persone
legate da un rapporto organico o di dipendenza con il soggetto che di
quell’attività deve rispondere (Cass. 10/02/1999, n.l 135; Cass. 21/11/1995,
n.12023).

Ne consegue che, una volta che il
giudice di merito aveva accertato che il Ministero non aveva compiuto
l’attività di farmacosorveglianza, cui era normativamente tenuto,
tale omissione non poteva che essere addebitata che ad uno o più
funzionari preposti a tale attività, risultando indifferente che poi gli stessi
fossero rimasti ignoti.

11.2.In
ogni caso l’infondatezza del motivo discende anche dal nuovo orientamento
interpretativo dell’art. 2059 ce, adottato da questa Corte con le sentenze
31.5.2003 n. 8827 ed 8828, ed ormai consolidato (cfr. Cass. 27.6.2007, n.
14846) secondo cui il danno non patrimoniale conseguente all’ingiusta lesione
di un interesse inerente alla persona, costituzionalmente garantito, non è
soggetto, ai fini della risarcibilità, al limite derivante dalla riserva di
legge correlata all’art. 185 cp., e non presuppone,
pertanto, la qualificabilità del fatto illecito come reato, giacché il rinvio
ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale ben
può essere riferito, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, anche alle
previsioni della legge fondamentale, ove si consideri che il riconoscimento,
nella Costituzione, dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi
natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in
tal modo co nfigura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di
riparazione del danno non patrimoniale.

12.Pertanto
va accolto parzialmente il primo motivo di ricorso e vanno rigettati il secondo
ed il terzo. Va cassata, in relazione al motivo accolto, l’impugnata sentenza e
va rinviata la causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, ad altra
sezione della Corte di appello di Roma, che si uniformerà ai principi di
diritto esposti al punto 3.4. Esistono giusti motivi per compensare per intero
le spese di questo giudizio di cassazione tra A. C. ed il ricorrente Ministero.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso
proposto dal Ministero della Salute nei confronti di A. C. e compensa tra gli
stessi le spese di questo giudizio di cassazione. Quanto agli altri, accoglie,
nei termini di cui in motivazione, il primo motivo di ricorso e rigetta i
restanti motivi. Cassa, in relazione al motivo accolto, l’impugnata sentenza e
rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di Cassazione, ad altra
sezione della Corte di appello di Roma.

Così deciso in Roma, lì 20
novembre 2007.