Civile

Tuesday 22 March 2005

La sentenza della Corte d’ Appello di Roma che riconosce i danni da fumo.Corte di Appello Di Roma, Sezione Prima Civile, sentenza n.1015/2005

La sentenza della Corte d’Appello di Roma che riconosce i danni da fumo.

Corte di Appello
Di Roma, Sezione Prima Civile, sentenza n.1015/2005
(Presidente: Fancelli; Relatore: Bonavitacola)

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto notificato in data 11/13
maggio 1994 (Omissis), vedova (Omissis), e(Omissis), quali eredi di (Omissis)
convenivano in giudizio innanzi al Tribunale di Roma l’amministrazione dei
Monopoli di Stato, esponendo: che il loro congiunto, (Omissis) era deceduto nel
1991 a
causa di un tumore polmonare; che dal 1950 egli aveva fumato in media circa
venti sigarette al giorno; che, nel 1988, a seguito di
insistenze familiari e di consigli del medico curante, aveva smesso di fumare;
che, tuttavia, il cancro non l’aveva risparmiato; che la neoplasia doveva
ritenersi provocata dal fumo di sigaretta; che doveva escludersi che avessero
operato altre cause, da rinvenirsi nella sua storia familiare e nella sua vita
residenziale e lavorativa; che, invero, nessuno dei familiari deceduti era stato
colpito da malattie tumorali; che egli aveva vissuto sempre in piccole città ed
aveva esercitato la professione di insegnante in scuole agrarie, il che
escludeva la sua esposizione o significativi inquinamenti ambientali; che la
responsabilità dell’evento letale doveva attribuirsi al Monopolio, che non
aveva provveduto a rendere noto con apposite informazioni
la natura gravemente nociva del fumo, così impedendo al congiunto di venire a
conoscenza dei rischi che correva, per la propria salute e di effettuare scelte
informate e responsabili sulla
pratica del fumo.

Chiedevano, pertanto, la condanna del
Monopolio al risarcimento dei danni.

Il Monopolio, nel costituirsi,
contestava la domanda e ne chiedeva il rigetto, deducendo, in particolare: che
non esisteva all’epoca alcuna disposizione di legge che facesse obbligo di informazione
circa i rischi per la salute; che, inoltre, essendo notorio che il fumo di
sigaretta, specie se prolungato e non moderato, esponeva al rischio di malattie
tumorali, il (Omissis) già ben informato
dei rischi che correva; che, pertanto, avendoli assunti liberamente e
consapevolmente, solo a lui doveva attribuirsi la responsabilità dell’evento.

Con sentenza in data 14 aprile 1997
il Tribunale rigettava la domanda, negando il rapporto di causalità e la colpa
dell’Amministrazione.

Avverso la sentenza proponevano appello innanzi a questa Corte gli attori, con
atto notificato in data 27 maggio 1998, deducendo: che doveva ritenersi provato
il rapporto di causalità tra il cancro ai polmoni e la pratica del fumo; che
l’obbligo per il Monopolio di fornire informazioni
sui rischi del fumo per la salute discendeva direttamente dagli artt. 32 e 41 della Costituzione,
ancorché non fosse entrata ancora in vigore la L. n.
428 del 1990 che ha imposto la pubblicità negativa sulle
confezioni di sigarette; che la responsabilità del Monopolio, derivava anche
dal fatto che la produzione e la vendita del tabacco costituivano attività
pericolosa, ai sensi dell’art. 2050 c. c.; che, ove fossero state fornite
le doverose informazioni, lo
(Omissis) avrebbe potato desistere prima dal fumo, evitando il cancro.

Chiedevano,
pertanto, che, in riforma della gravata sentenza, fosse accolta la loro domanda di
risarcimento dei danni, previa ammissione di prova per testi e di consulenza
medico-legale sul rapporto di causalità.

L’Amministrazione
dei Monopoli, nel costituirsi, contestava il gravame e ne chiedeva il rigetto.

Con comparsa in data 30 aprile 1999, in luogo del
Monopolio si costituiva l’Ente Tabacchi Italiani, istituito con Decreto
Legislativo n. 283 del 1998 e subentrato al Monopolio nell’attività di
produzione e di commercio dei tabacchi, facendo proprie le precedenti difese.

Con ordinanza in data 2 ottobre 2000
la Corte, sospesa la pronunzia nel merito, disponeva consulenza medico-legale
sul rapporto di causalità, affidandola ad un collegio di esperti.

Nell’udienza del 4 dicembre 2000
interveniva in giudizio il Codacons, proponendo nei
confronti dell’ETI domanda di risarcimento danni fondata
sulla stessa causa dedotta dagli appellanti.

L’intervento veniva
immediatamente contestato, siccome inammissibile, sia dagli appellanti che
dall’ETI.

Espletata la consulenza tecnica e depositata
la relativa relazione, l’ETI depositava note critiche dei propri consulenti
tecnici di parte.

I C.T.U.
replicavano con una articolata relazione integrativa,
ribadendo le loro originarie conclusioni.

Precisate dalle parti le conclusioni
come in epigrafe, la causa veniva rimessa al Collegio,
che la riteneva a sentenza nell’udienza di discussione del 26 ottobre 2004.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Solo in sede di comparsa
conclusionale l’ETI ha sollevato la questione pregiudiziale della sua
legittimazione passiva, che dovrebbe escludersi in ragione del fatto che,
risalendo l’illecito dedotto dai sigg. (Omissis e Omissis)
a fondamento della loro pretesa risarcitoria ad epoca
antecedente alla costituzione dell’Ente questo non poteva essere chiamato a
rispondere di un illecito attribuibile soltanto al soggetto che all’epoca
produceva e commerciava il tabacco, ossia all’Amministrazione
Autonoma dei Monopoli di Stato.

Il fatto che l’eccezione sia stata
formulata dopo la precisazione delle conclusioni non
esonera il Collegio dall’esaminarla, atteso che il difetto di legittimazione e
rilevabile anche d’ufficio.

Va subito detto che la tardiva
eccezione contrasta con le argomentazioni a suo tempo addotte dall’Ente
all’atto del suo intervento in giudizio ex art. 111c.p.c..

In quella occasione
l’Ente assumeva di essere subentrato nel rapporto processuale all’Amministrazione dei Monopoli perché era succeduto
nei rapporti attivi e passivi, nonché nei diritti e nella titolarità dei beni
facenti capo all’Azienda dei Monopoli per tutto quanto atteneva alla produzione
e al commercio dei tabacchi e, quindi, anche nel rapporto controverso, per
l’ovvia ragione che questo riguardava uno dei rapporti relativi alla precedente
attività dei monopoli. Ed in linea con tale impostazione svolgeva tutta la
successiva attività difensiva, contestando, in piena aderenza alla difesa del
Monopolio, ogni sua responsabilità con riferimento, sia al rapporto di
causalità che ai profili della colpa.

È chiaro, quindi che l’ente era ben
consapevole di non potere rimanere estraneo alla causa.

Ovviamente questi precedenti rendono estremamente debole il tardivo assunto del difetto di
legittimazione secondo il quale gli illeciti, di qualsiasi natura, sia civili
che amministrativi, non potrebbero mai fare carico a chi è subentrato al
soggetto operante all’epoca dei fatti. L’assunto non ha fondamento.

A giudicare dal chiaro tenore
dell’art. 3, 1° comma, D.Leg.
9 luglio 1998, n. 283, l’Ente
Tabacchi subentrava in tutti i rapporti facenti capo
ai Monopoli di Stato, sia attivi che passivi, nell’attività di produzione e di
commercio dei tabacchi ed, in pari tempo, acquistava tutti i beni relativi a
tale attività.

Orbene, proprio perché subentrava
anche nei rapporti passivi, non poteva rimanere estraneo al rapporto già sorto
in capo ai Monopoli nell’esercizio della medesima attività, poiché quel
rapporto ancorché ancora sub indice per il contenzioso pendente, tuttavia, già
faceva parte della massa passiva del patrimonio che si trasferiva al nuovo
Ente, ovviamente sotto la condizione dell’accertamento in concreto della esistenza della obbligazione risarcitoria.

Tanto è vero che, proprio per far
fronte alle passività comunque derivanti dalla
pregressa attività, era previsto il trasferimento al nuovo Ente di tutti i beni
relativi alla produzione e al commercio dei tabacchi.

A nulla, rileva il richiamo a
giurisprudenza di legittimità che esclude la responsabilità del soggetto
subentrante per illeciti pregressi facenti capo al precedente soggetto, giacché
questa riguarda casi in cui gli illeciti erano di natura
personale e, quindi, intrasmissibili, come quelli in materia di sanzioni
per illeciti amministrativi.

Viene, poi in rilievo l’eccezione
pregiudiziale, sollevata sia dalla difesa dell’ETI che
da quella dei sigg. (Omissis e Omissis), secondo la quale l’intervento spiegato
dal Codacons nel presente giudizio in fase d’appello
sarebbe inammissibile.

L’eccezione è fondata.

Stabilisce l’art 344 c.p.c. che nel giudizio d’appello è ammesso soltanto
l’intervento dei terzi che potrebbero proporre opposizione di terzo ex art 404 c.p.c..

In sostanza, come chiarito dalle SS.UU. della Cassazione nella
sentenza n. 8500 del 27 agosto 1998, nonché da successive pronunzie (cfr. Cass.,
5 marzo 2003, n. 3258), il terzo può fare opposizione contro la sentenza
pronunziata tra altre persone quando pregiudichi i suoi diritti, più
esattamente, quando egli rivendichi nei confronti di entrambe le parti la
titolarità di un diritto autonomo la cui tutela sia incompatibile con la
situazione accettata o costituita dalla sentenza di primo grado.

Orbene, ciò posto, è chiaro che nella
fattispecie il Codacons non si trova in siffatta
condizione.

Invero, esso deduce una pretesa risarcitoria, analoga a quella azionata
dai sigg. (Omissis e Omissis), nei confronti del solo ETI, anche esso chiedendo
la condanna dell’Ente al risarcimento dei danni, previa affermazione della sua
responsabilità per la morte di (Omissis) a causa del fumo di sigaretta, per
avere lo stesso evento prodotto danni anche ad essa Associazione (danni morali
e danni ai fini statutari).

Le sue conclusioni al riguardo nella
comparsa di intervento sono particolarmente
illuminanti. Infatti, l’Associazione ha chiesto il
ristoro dei propri danni nei confronti dell’ETI, fondandolo sulla previa
dichiarazione della sua responsabilità per lo stesso evento e per la medesima
causa dedotti dagli (Omissis e Omissis), ossia "l’insorgenza della
malattia che ha portato alla morte del signore (Omissis)" e per aver
venduto un prodotto nocivo per la salute senza le debite informazioni
sui rischi del fumo e sulla dipendenza da nicotina.

In sostanza, l’intervento, così come
spiegato, si configura come un intervento adesivo-autonomo e non come un
intervento autonomo principale, come tale ammissibile soltanto in primo grado
ex art. 105 c.p.c..

Il Codacons,
in sede di precisazione delle conclusioni, ha chiesto che fosse ordinata la
cancellazione, ai sensi dell’art. 89 c.p.c.. di alcune espressioni ritenute offensive nei confronti
dei suoi procuratori, contenute nel verbale d’udienza del 25 marzo 2002,
provenienti dai difensori dei sigg. (Omissis e Omissis)

Si tratta delle dichiarazioni a
verbale con le quali detti difensori protestavano per il fatto che i
procuratori del Codacons, in data 13 marzo 2002, avevano reso pubblico il deposito della relazione dei C.T.U. e delle relative conclusioni in ordine alla ritenuta
esistenza del rapporto di causalità tra il fumo di sigaretta e la morte di
(Omissis) per cancro polmonare.

La protesta consisteva soltanto nel
lamentare che quell’atto non si sarebbe dovuto
portare a conoscenza al di fuori dello stretto ambito processuale per la
ragione che così si era violato il diritto alla riservatezza spettante ai sigg.
(Omissis e Omissis) in ordine a notizie personalissime
riguardanti la vita e la morte del loro congiunto.

Peraltro, i difensori non usarono
parole oggettivamente offensive o sconvenienti, ma fecero uso di un linguaggio
corretto ed essenziale, contenuto, cioè, nei rigorosi
limiti delle esigenze di difesa, nella sede idonea, dei loro clienti, che
avevano diritto alla riservatezza per tutto ciò che riguardava la causa.

Deve, pertanto, escludersi che
ricorrano le condizioni per fare luogo al richiesto provvedimento.

Superate le
questioni pregiudiziali, può passarsi all’esame del gravame nel merito.

Come già chiarito nella
ordinanza collegiale in data 2 ottobre 2000, la Corte prima di pronunziarsi
sugli altri elementi che concorrono a configurare l’ipotesi di illecito civile
dedotta dagli appellanti e, segnatamente, prima di affrontare il problema della
colpa dell’Ente Tabacchi sotto i diversi profili prospettati deve stabilire se
tra la neoplasia polmonare che condusse a morte (Omissis) e l’inalazione di
fumo di tabacco sussista un rapporto di causalità.

In particolare, deve accertare,
secondo i principi enunciati nella menzionata ordinanza, se la neoplasia
polmonare trovi la sua causa nel fumo della sigaretta, nel senso che l’evento possa inquadrarsi tra le conseguenze normali ed ordinarie
del fumo e si ponga, quindi, nell’ambito delle normali linee di sviluppo della
serie causale, secondo un serio e ragionevole criterio di probabilità
scientifica, pur in difetto di certezza assoluta, al di là di ogni ragionevole
dubbio (cfr. Cass. Pen. Sez.
Un., 11 settembre 2002, n 30328, Cass.,
11 settembre 1998, n. 9037, Cass., 20 febbraio 1998,
n. 1857 e Cass., 30 agosto 1997, n. 8259).

A tal fine è stata espletata
una complessa consulenza medico-legale collegiale, affidata ad esperti aventi
professionalità specifiche ad alto livello, che ha concluso per l’esistenza del
nesso di causalità, conclusione fortemente contrastata con articolata ed
argomentata relazione da un collegio di esperti di parte nominato dall’Ente
Tabacchi, anch’essi dichiaratamente dotati di alta professionalità.

L’indagine degli esperti si è
sviluppata, innanzitutto, nel senso dell’accertamento
della natura primitiva o metastatica del tumore
polmonare risultante dalla documentazione sanitaria acquisita e, segnatamente,
da quella ospedaliera rilasciata da strutture sanitarie di Perugia
nel 1991, tumore classificato come "adenocarcinoma
solido con produzione di muco".

L’indagine è chiaramente preliminare
rispetto a quella tesa a stabilire la dipendenza causale o meno della neoplasia
dal fumo.

Invero, nel caso in cui la neoplasia si
fosse formata quale metastasi di un tumore primario sviluppatosi in altra sede,
non avrebbe più senso indagare circa l’incidenza causale del fumo, atteso che
si avrebbe la certezza della dipendenza della neoplasia polmonare da causa
diversa dal fumo, dovendosi ricollegare essa ad un tumore formatosi in altra
sede per causa certamente non dipendente dal fumo.

Secondo i C.T.U,
pur riconoscendo che non esiste un criterio istologico assoluto per distinguere
un tumore primitivo da uno secondario, ovvero metastatico, tuttavia, gli esami istologici e citologici
eseguiti sulla base del materiale biologico a suo tempo acquisito rivelerebbero
una elevata probabilità che nella specie si tratti di una neoplasia primitiva.

Le ragioni che militano
per tale soluzione sono così enunciate: la lesione è unica, con i caratteri
istologici e citologici del carcinoma indifferenziato a grandi cellule o dello adenocarcinoma, solido con produzione di muco, entrambi
classificati dalla Organizzazione Mondiale della Sanità come tumori primitivi
del polmone, mentre le metastasi si caratterizzano per lo più per la
molteplicità delle lesioni; è improbabile l’esistenza di un carcinoma
clinicamente occulto del colon, metastatico al
polmone, contrariamente a quanto ipotizzato dai CT.
di parte dell’Ente Tabacchi, perché un tale tumore, a parte la mancanza di
qualsiasi esame che lo abbia evidenziato, avrebbe avuto una migliore
differenziazione rispetto alla maggior parte dei tumori primitivi del polmone
e, segnatamente, rispetto all’adenocarcinoma
riscontrato, che è tumore scarsamente differenziato; l’indagine molecolare ha
rivelato una mutazione di K-ras in corrispondenza
della posizione I del codone 12, associata a tumore
polmonare, mentre la mutazione associata a cancro del colon si verifica in
corrispondenza della posizione 2 del codone 12;
l’esame delle biopsie esofagee e gastriche escludono la presenza di una
neoplasia nel tratto esofago-gastrico.

In senso contrario sì sono espressi i
C.T. di parte dell’ETI. Essi fondano l’ipotesi di un tumore metastatico
sulle seguenti considerazioni: il reperto istologico dell’agobiopsia
eseguita a Perugia nel 1991 e riportato nella
cartella clinica qualifica il tumore come "adenocarcinoma
solido con produzione di muco", senza affermarne la natura primitiva;
nella cartella clinica il tumore è indicato come una formazione compatibile con
micro lesione ripetitiva, ossia come una metastasi
derivata da un tumore primario sviluppatosi in altra regione contigua a quella
polmonare; la collocatone periferica del tumore depone
nello stesso senso, stante la prossimità ad altri organi; la lesione metastatica può essere anche unica, oltre che plurima;
l’esame istologico non è in condizione di fornire dati certi in assoluto circa
la natura primitiva o metastatica, del tumore.

Ritiene la Corte che debba
considerarsi più attendibile la tesi dei C.T.U. per
la ragione che essa è assistita da un più elevato grado di probabilità
scientifica.

In proposito si rileva che l’origine
primitiva del tumore è concordante con la diagnosi istocitopatologica
di adenocarcinoma effettuata
a suo tempo dai sanitari di Perugia nel 1991, atteso
che tale forma di neoplasia è classificata tra i tumori primari del polmone e
che la diagnosi è stata confermata dal responso istocitopatologico
dato in questa sede dal dr. (Omissis).

Con tale origine concordano pure
l’unicità e la posizione della lesione (nodulo singolo periferico) che sono
caratteristici degli adenocarcinomi polmonari, mentre
le metastasi polmonari ad origine intestinale sono
molto raramente singole, presentandosi, invece, di norma, come plurime. Va,
poi, rilevato che gli adenocarcinomi polmonari
producono mucina, il che concorda con la accettata natura del tumore dello (Omissis) ("adenocarcinoma solido con produzione di muco").

Deve, altresì, rilevarsi che
l’indagine molecolare ha rivelato una mutazione di K-ras
in corrispondenza della posizione I del codone 12,
che si associa a tumore polmonare, mentre la mutazione di K-ras
associata al cancro del colon si verifica in
corrispondenza della posizione 2 del codone 12.

Deve, infine, rilevarsi che le
indagini radiologiche e le biopsie esofagee e gastriche hanno escluso qualsiasi
localizzazione tumorale a livello subdiaframmatico e retroperitoneale e che non v’è traccia nei dati acquisiti di elementi rivelatori della presenza di una formazione
tumorale a livello intestinale, così che, in definitiva, l’accertata assenza di
evidenze tumorali a livello gastrico ed esofageo e la mancanza di positivi
accertamenti di siffatte presenze a livello intestinale portano a concludere
nel senso che si possa ragionevolmente escludere, con una seria base
scientifica, che nelle zone contigue alla regione polmonare si fosse formata
una neoplasia primaria capace di produrre una metastasi al polmone.

Una volta accertata la natura
primitiva del tumore in sede polmonare, occorre stabilire se la sua formazione,
secondo i principi sopra enunciati, si possa
considerare, con elevata probabilità scientifica, pur in difetto di certezza
assoluta, come conseguenza del fumo di sigaretta, tenuto conto che sono i
polmoni il bersaglio primario dei fattori cancerogeni presenti nel fumo.

Al riguardo viene in rilievo, innanzitutto, l’indagine epidemiologica effettuata dai C.T.U. con il concorso del dr. (Omissis),
esperto nella materia.

In proposito va subito chiarito che
tale tipo di indagine, per le sue intrinseche
caratteristiche, non riguarda casi specifici e concreti, ma valida e determina
il rischio di malattie oncologiche in dipendenza del fumo di sigaretta su un
piano generale di popolazione e di determinati aggregati di persona, nonché di
talune collettività, in base alle loro caratteristiche genetiche, alla loro
storia, alle condizioni ambientali, alle occupazioni, ecc., secondo criteri di
tipo statistico, con la conseguenza che da essa si possono ricavare nei singoli
casi seri elementi indicativi, ma non certamente decisivi.

Ciò posto, va rilevato che i C.T. di
parte dell’ETI considerano indimostrate le
conclusioni della consulenza epidemiologica del dr. (Omissis),
secondo le quali, alla stregua degli studi epidemiologici, del grado di
esposizione a rischio dello (Omissis) secondo la sua storia familiare,
lavorativa e residenziale, nonché secondo le caratteristiche istopatologiche del tumore, doveva ritenersi altamente
probabile, nella misura di oltre l’80%, l’esistenza del rapporto causale tra
neoplasia e prolungata abitudine al fumo di tabacco.

Ritiene la Corte che nonostante qualche
incertezza che si ricollega innegabilmente alla stessa natura del metodo, di
tipo statistico, tuttavia, la valutazione del rischio sia stata fatta dai C.T.U. in maniera corretta. Invero,
quanto al "rischio attribuibile" o "frazione eziologica",
utilizzando correttamente gli stessi dati usati dai CT ETI, si perviene ad un
rischio non inferiore all’80%.

Al riguardo va rilevato che i dati
epidemiologici e statistici sono stati determinati sulla base
di informazioni sulla storia
familiare, residenziale e lavorativa dello (Omissis) da considerarsi
attendibili siccome fornite, sia dai familiari e dallo stesso paziente all’atto
del ricovero presso la struttura sanitaria di Perugia,
come risultante dalla cartella clinica, sia dal medico che lo ebbe in cura per
alcuni anni e che in tale qualità era bene a conoscenza delle sue abitudini e
condizioni di vita e di lavoro.

Risultava, quindi, per un verso, che
lo (Omissis) aveva, per quasi quaranta anni, fumato abitualmente circa venti
sigarette al giorno dei Monopoli di Stato e che,
quindi, aveva assunto massicce dosi di sostanze tossiche provenienti dal fumo,
prima fra tutte il benzopirene, e, per altro verso, che egli aveva vissuto
sempre in piccole città, ove la possibilità di esposizione agli effetti
dell’inquinamento ambientale sia alquanto limitata; che, inoltre, aveva svolto
un’attività professionale (insegnante in una scuola agraria) che non lo aveva
esposto al rischio di assunzione di sostanze inquinanti usate in agricoltura
(le esercitazioni pratiche non implicavano l’uso di pesticidi, contrariamente a
quanto asserito dall’ETI); che, infine, la sua storia familiare non comprendeva
alcun caso di neoplasia, visto che i suoi genitori erano deceduti ad età molto
avanzata per marasma senile e che anche quattro fratelli erano deceduti per
cause in nessun modo collegate a tumori.

Ma quel che è determinante
per ritenere l’esistenza del rapporto causale tra neoplasia ed abitudine al
fumo è il risaltato della indagine molecolare. I C.T.U.
hanno eseguito una indagine molecolare mirata sul DNA
estratto da reperti conservati, indagando a livello, sia degli esoni 5, 6, 7, 8 e 9 del gene p 53 che dall’esone I del gene K-ras, sul
presupposto che mutazioni interessanti di tali geni avrebbero fornito elementi
decisivi sul rapporto di causalità.

Difatti, mutazioni del genere
sarebbero prodotte da sostanze cancerogene contenute nel fumo e, in ispecie, dal benzopirene, di guisa che esse costituirebbero
dei biomarcatori rivelatori di un preciso nesso di
casualità tra neoplasia e fumo.

Orbene, nella prima analisi essi non
hanno rilevato alcuna mutazione del gene p53.

Hanno, invece, rilevato una mutazione sul cordone 12 dell’esone
I di Corsa corrispondente alla trasversione G/T.

Ritengono i CT di parte ETI che la
presenza della mutazione di K-ras non costituisca un dato che stabilisca un sicuro collegamento
tra neoplasia e fumo.

Si tratterebbe di un dato epidemiologico,
tutt’altro che certo allo stato delle conoscenze
scientifiche in materia. Esso, peraltro, ricorrerebbe soltanto in un limitato
numero di casi, pari, grosso modo, al 30% dei tumori
polmonari nei fumatori e, inoltre, sarebbe presente anche nei tumori polmonari
di non fumatori nella misura di circa il 10%.

I C.T.U.
invece, nella loro relazione e, più marcatamente, in quella integrativa,
hanno affermato che la mutazione non è affatto un elemento che serve a
rafforzare l’associazione epidemiologica tra fumo di sigaretta e cancro, ma
costituisce, come risulta da recenti studi, la prova che idrocarburi
policlinici hanno prodotto una lesione molecolare patogenetica
che si pone all’origine del tumore dello (Omissis), prova che si fonda su
precise evidenze biochimiche indotte dalla esposizione ad idrocarburi policiclici.

La
Corte
condivide le conclusioni dei C.T.U.

Invero, la numerosa
letteratura citata dai medesimi, aggiornata fino al 2002, ricollega una
siffatta mutazione all’azione mutagena degli idrocarburi policiclici
sul DNA in corrispondenza della posizione I del codone
12, così che la mutazione viene a costituire un preciso e specifico biomarcatore indicativo della dipendenza del cancro dal
fumo. Vero è che,
in base alla stessa letteratura citata dai C.T.U., risulta che in circa il 70% dei casi di fumatori affetti
da cancro ai polmoni una mutazione siffatta non si riscontra; ma ciò non infida
affatto la validità del marcatore, sia perché resta sempre molto elevata la
percentuale di casi in cui la mutazione specifica si presenta, così da rendere
l’esistenza del rapporto causale provata alla stregua di un serio e ragionevole
grado di probabilità scientifica, sia perché, nei casi in cui la mutazione non
si verifica, ciò significa soltanto che il cancro polmonare associato al fumo
ha percorso vie molecolari diverse per effetto di eventi mutazionali
connessi ad altre delle numerose sostanze cancerogene presenti nel fumo. Vero è
che la mutazione di K-ras, rilevabile anche in casi
di non fumatori, sarebbe potuta derivare dalla
inalazione di sostanze cancerogene provenienti dal fumo passivo o da ambienti
inquinati da idrocarburi policiclici per effetto
delle condizioni di vita o di lavoro del soggetto. Ma, di fronte al dato
pacifico che lo (Omissis) era un fumatore abituale, come tale esposto al
rischio di assunzione di sostanze tossiche prodotte da
idrocarburi policiclici, resta assai improbabile che
la mutazione potesse essere stata determinata da un fattore diverso dal fumo
attivo.

La specificità della causa della
mutazione esclude anche che essa potesse essere
l’effetto di inquinamento da sostanze tossiche usate in agricoltura, quali, ad
esempio, i pesticidi, o che potesse derivare per metastasi da un tumore del
colon, secondo la prospettazione delle possibili diverse
cause fatta dalla difesa dell’ETI.

Invero, quanto al primo profilo, i
pesticidi, a parte l’improbabilità di contatto con essi
da parte dello (Omissis) in ragione della sua attività di insegnante, come
asserito dai C.T.U. in sede di chiarimenti, non
producono mai una mutazione di K-ras.

Inoltre, quanto al secondo profilo,
come dagli stessi chiarito, nei casi in cui il tumore
al colon produce una siffatta mutazione, questa si verifica sempre in
corrispondenza della posizione 2 del codone 12,
coinvolgendo cioè la seconda guaina, mentre, quando la mutazione dipende da
cancro ai polmoni, essa interessa sempre la posizione I del codone
12.

A nulla rileva che i C.T.U. non hanno riscontrato la mutazione del gene p 53 a
livello degli esoni 5, 6, 7, 8 e 9 indicata come
marcatore del cancro dei polmoni. Invero, poiché anche questa mutazione si verifica soltanto in circa il 30% dei casi di tumore
polmonare, ciò significa soltanto che il caso di specie rientra tra quelli
(circa il 70%) nei quali la mutazione non si è prodotta, pur essendosi in
presenza di un tumore polmonare, per un diverso gioco delle mutazioni
molecolari.

Dunque, in definitiva, l’esistenza
del rapporto causale tra cancro polmonare e fumo di sigaretta può dirsi
accertata, secondo un criterio di seria probabilità scientifica, al di là di ogni ragionevole dubbio.

Si pone qui il problema se l’ETI sia incorso in colpa nel mettere in commercio il tabacco
senza le debite informazioni sulla
natura del prodotto e, in particolare, sulle sue proprietà nocive per la salute
dei consumatori.

Come si è sopra
detto, il consumo del tabacco può provocare in elevata percentuale il
cancro del polmone per effetto dell’azione mutagena sulle cellule degli
idrocarburi policiclici aromatici contenuti nel fumo
del tabacco e, segnatamente, del benzopirene.

Ciò significa che il tabacco contiene
sostanze nocive che, all’atto del consumo, si sprigionano, scatenando i loro
effetti lesivi sul loro bersaglio primario, ossia sui polmoni, con il pericolo
che l’aggressione possa giungere fino a produrre
quelle mutazioni molecolari che sono all’origine della neoplasia polmonare in
una elevata percentuale di fumatori. Il soggetto che produce il tabacco e lo
mette in commercio non può ignorare i rischi per la
salute che derivano al consumatore. Ne è a conoscenza
perché, grazie ai tecnici che fumo parte dei suoi lavoratori, sa quale è la
composizione dei tabacchi e quali le sostanze tossiche in essi contenute.

Inoltre, quale soggetto interessato
alla produzione ed al commercio non può ragionevolmente ritenersi ignaro degli
studi scientifici che da molti decenni almeno dal 1950, hanno ad oggetto gli
effetti del fumo del tabacco sulla salute dell’uomo, studi che hanno
evidenziato in maniera sempre più certa che il fumo
provoca danni all’uomo e, in particolare, è causa, in elevata percentuale, di
tumori polmonari. Tanto è vero che da anni si sono introdotti sistemi di filtri
per limitare gli effetti nocivi della nicotina e dei residui di catrame sui
polmoni, evitando che una parte di tali sostanze fosse da
questi assimilata.

Peraltro, da molti anni prima, della entrata in vigore della L.
29/12/1990, n. 428 si avvertiva la necessità di informare
i fumatori circa gli effetti nocivi del fumo sulla salute, ancorché non fosse
ancora prevista la pubblicità, prescritta della menzionata legge mediante
apposizione diretta sui contenitori di sigarette di una scritta che indicasse
inequivocabilmente il rischio per la salute, passando da iniziali espressioni
più generiche ("il fumo nuoce alla salute") ad espressioni sempre più
drammaticamente esplicite ("il fumo uccide", il "fumo provoca il
cancro", "il fumo provoca cancro mortale ai polmoni" ecc.), così
da dissuadere i fumatori più attenti alla tutela della salute e più
responsabili a smettere di fumare.

Può dirsi, quindi, che l’ETI,
producendo e vendendo tabacchi, esercitava una attività
pericolosa, ai sensi dell’art. 2050 c. c., per la ragione che i tabacchi,
avendo quale unica destinazione il consumo mediante il fumo, contenevano in sé,
per la loro stessa natura e per la loro composizione bio-chimica, una
potenziale carica di nocività, potendo dal fumo derivare danno alla salute e,
in molti casi, il peggiore dei mali, il cancro ai polmoni.

E, poiché quella insidia
aveva come bersaglio la salute, ossia un bene primario dell’uomo, tutelato
dalla Carta Costituzionale (articolo 32) come diritto fondamentale del
cittadino, l’ente era obbligato ad usare ogni cautela per evitare che il
rischio si tramutasse in danno concreto.

La prima elementare cautela era
quella di informare il consumatore
destinatario delle vendite dei rischi del fumo.

All’uopo, pur in mancanza di una
specifica disciplina di legge che gli prescrivesse specifici adempimenti, avrebbe dovuto fare ricorso a qualsiasi sistema idoneo.

In particolare, avrebbe potuto, innanzitutto, realizzare una sistematica campagna di informazione, rendendo noti alla generalità dei
consumatori gli aspetti negativi del fumo e suggerendo limitazioni e cautele.

Inoltre, avrebbe potuto inserire,
magari anche all’interno delle confezioni di tabacchi, delle etichette o dei
foglietti illustrativi, ove fossero riportate le notizie essenziali sulla
composizione dei tabacchi e, soprattutto, sulle sostanze nocive, nonché sui rischi del fumo per la salute. Così come si fa da
anni nelle confezioni di medicinali, di sostanze tossiche per usi vari ecc.

Esistono precedenti specifici in
materia di emoderivati nei
quali la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato come l’attività da
produzione e immissione in commercio di farmaci contenenti gammaglobuline umane
costituisca, per le qualità intrinseche delle sostanze e per il rischio di
trasmettere l’epatite del tipo B, attività pericolosa, ai sensi dell’art. 2050
c. c., con la conseguenza che il produttore, per liberarsi della presunzione di
responsabilità, deve fornire la prova rigorosa dell’adozione di tutte le misure
idonee ad evitare il danno, senza che basti la prova negativa di non avere
violato alcuna norma di legge o di comune prudenza, occorrendo, invece, la
prova positiva di avere impiegato ogni cura e misura atta ad impedire l’evento
dannoso (cfr. Cass., 27 gennaio 1997, n. 814, Cass. 1° febbraio 1995, n. 1138
e Cass., 20 luglio 1993, n. 8069) (cfr, inoltre, in materia di prodotti chimici nocivi, Cass,, 10 ottobre 1997, n. 9866).

L’ETI, invece, si è trincerata dietro
l’affermazione di avere osservato tutte le disposizioni di legge regolanti la
produzione ed il commercio dei tabacchi e di avere apposto all’esterno delle
confezioni di sigarette i prescritti richiami alla
nocività del fumo solo dopo l’entrata in vigore della L.
n. 428 del 1990, escludendo di essere obbligata all’uso di altre
cautele.

In tal modo essa si è sottratta all’onere della prova liberatoria, con la conseguenza che a suo
carico è rimasta operante, con tutta la sua forza, la presunzione di colpa.

A nulla rileva che lo (Omissis), alla
stregua delle conoscenze scientifiche divulgate da anni ad ogni livello, non potesse ignorare gli effetti nocivi del fumo,
indipendentemente da specifiche e dirette informazioni
del produttore e che, quindi, potesse effettuare una libera e consapevole
scelta tra il fumare, assumendosene i relativi rischi, ed il non fumare, così
allontanando i rischi stessi, con l’effetto finale che solo a lui dovrebbe
risalire la responsabilità dell’evento.

Invero, la sua condotta, di fronte alla
presunzione di responsabilità dell’ente produttore, non vinto da prova
contraria, sarebbe irrilevante, non avendo l’ente fornito la prova contraria di
una sua condotta idonea ad evitare il danno.

In ogni caso, l’ipotesi della
conoscenza da parte dello (Omissis) per altra via, diversa dalla
informazione del produttore,
della nocività del fumo, sarebbe tutta da dimostrare, non potendosi escludere
che lo (Omissis) si fosse reso conto della nocività soltanto poco tempo prima
di smettere di fumare, quando ormai la lunga abitudine al fumo aveva prodotto i
suoi effetti devastanti.

Deve, dunque, affermarsi la
responsabilità dell’ETI per i danni subiti dalla (Omissis) e dallo (Omissis) per la morte del loro congiunto in dipendenza del
cancro polmonare contratto a causa del fumo di sigaretta.

Il danno è essenzialmente morale e
consiste nel dolore per la scomparsa nella loro vita di una presenza familiare
importante, che, ove non fosse intervenuto il cancro,
avrebbe potuto costituire una realtà ancora per molti anni.

Tenuto conto della natura del danno
del fatto che la moglie conviveva con il marito da anni e che alla sua morte è
rimasta sola, nonché della circostanza che il figlio
aveva una propria famiglia e viveva altrove, stimasi equo liquidare, alla prima
la somma di euro 150.000,00 e, al secondo, la somma di euro 50.000,00,
comprensive di rivalutazione e di interessi all’attualità.

Su dette somme spettano gli interessi
legali dalla data della presente sentenza fino al saldo.

Le spese di entrambi
i gradi di giudizio debbono fare carico all’ETI, comprese le spese della
consulenza tecnica d’ufficio.

Nei rapporti tra il Codacons e le altre parti si giustifica la compensazione
delle spese.

P.Q.M.

la Corte così provvede:

– dichiara inammissibile l’intervento
in appello del Codacons, rigetta la sua domanda ex
art 89 c.p.c., e dichiara
interamente compensate le spese del giudizio tra lo stesso e le altre parti;

– accoglie l’appello e, per
l’effetto, in riforma della sentenza del tribunale di Roma in data 4 aprite
1997, condanna l’ETI – ora British American Tobacco B.A.T. Italia S.p.A. – a
pagare a (Omissis), vedova (Omissis) ed a (Omissis), a titolo di ristoro dei
danni morali per la morte del loro congiunto, (Omissis), le somme,
rispettivamente, di euro 150.000,00 e di euro
50.000,00, con gli interessi legali dalla data della presente sentenza fino al
saldo;

– condanna, inoltre, l’ETI a
rimborsare ai predetti le spese del doppio grado di
giudizio, che liquida, quanto al primo grado, in euro 8.000,00 di cui euro
200,00 per esborsi, euro 1.800,00 per diritti ed euro 6.000,00 per onorari,
oltre accessori di legge e, quanto al presente grado, in euro 12.000,00, di cui
euro 300,00 per esborsi, euro 2.700,00 per diritti ed euro 9.000,00 per
onorari, oltre le spese di consulenza tecnica d’ufficio come liquidate e gli
accessori di legge.

Così deciso in Roma il 2 novembre
2004.

Depositata in Cancelleria il 7 marzo
2005.